Diventerai una star

Benché durante l‘adolescenza e gli anni iniziali dell’età adulta, lo confesso con vergogna e non per la prima volta, abbia guardato a loro con un’ammirazione che rasentava il fanatismo, ed abbia anche pensato (me ne ricordo con orrore) che anzi mi sarebbe piaciuto essere come loro da grande, ho col tempo, e vorrei dire con la crescita, sviluppato un sentimento di avversione, talvolta sfociato nel franco fastidio, nei confronti di quelle che potrei chiamare opinionstar.

Mi riferisco, con questo termine, a quella ristretta e fortunata casta di persone che, nonostante le opinioni (soprattutto quelle risibili) siano una delle merci più prodotte e quindi svalutate sulla faccia della Terra, sono riuscite a trasformare le proprie in un lavoro, per altro molto ben remunerato; a quell’esiguo numero di “penne” che ha occupato una posizione tutta particolare (e, non di rado, spiccatamente elevata) all’interno degli organigrammi di giornali, riviste, notiziari televisivi e radiofonici: insomma, nell’ambito di quelle sedi che, se non altro per tradizione e statuto, sarebbero deputate a dare le notizie, e che invece spesso e volentieri (in alcuni casi, a cadenza quotidiana) offrono le proprie pagine alle sopraddette opinionstar, che nominalmente sono ancora giornalisti, affinché queste ci dicano cosa pensano (e quindi, in certo modo, cosa noi dobbiamo pensare) delle notizie (non sono anzi mancati casi in cui un fatto è diventato una notizia proprio in conseguenza dell’interessamento di un’opinionstar). Più pragmaticamente, con questo termine mi riferisco a gente come Massimo Gramellini, che a dispetto di alcune sparate troppo paternaliste (perché Gramellini è sempre paternalista) continua indisturbato ad uscire ogni giorno sul Corriere col suo Caffè; a Beppe Severgnini, che sullo stesso Corriere è ospitato di frequente per insegnarci a vivere e pensare; a Michele Serra, che da tempo immemore infligge ai lettori di Repubblica (quindi persone di bocca non buonissima, va detto) la sua Amaca. E con questo termine mi sto riferendo anche ad Antonello Piroso.

Una decina di giorni fa, infatti, mentre tornavo dal lavoro dopo una nottata particolarmente problematica, e non avevo voglia di altro se non di un po’ di buona musica che mi tenesse sveglio mentre guidavo fino a casa, ho casualmente riconosciuto, tra un brano e l’altro trasmesso da Virgin Radio, la voce dell’ex direttore del Tg La7, il quale è stato compagno di molte serate della mia giovinezza “impegnata”, quando conduceva il suo (ah)iPiroso (ho già detto che guardo a quei giorni con imbarazzo, vero?); è stato così che sono venuto a sapere che l’emittente radiofonica ha deciso di affidargli una striscia quotidiana, della durata di pochi minuti ed intitolata Il cavaliere nero (spero non in riferimento all’omonimo, leggendario sketch di Gigi Proietti), in cui Piroso discute e commenta gli “avvenimenti del giorno”, offre il suo punto di vista su quello che “accade nel mondo” e, insomma, fa quello che gli riesce meglio, ossia l’opinionstar, con tutto l’ampio dispiego di mezzi retorici di cui si servono tutte le opinion star: provengo dal mondo della sinistra ma, ho sempre sostenuto le libertà individuali ma, penso che ognuno abbia diritto di esprimere la sua opinione ma, e via di anentie ottative. Tale decisione mi ha sorpreso, lo confesso: credevo che, da quando nel piccolo stagno di La7, di cui era il ras incontrastato, è giunto il pesce grosso Enrico Mentana, Piroso fosse scomparso dai radar, e che il sia pur piccolo pubblico che lo seguiva con passione lo avesse dimenticato. Evidentemente, mi sbagliavo.

Ad ogni modo, la puntata del Cavaliere nero che ho ascoltato io era dedicata a due argomenti che hanno fatto parecchio scalpore, la scorsa settimana: la decisione di Emmanuel Macron di rendere obbligatorio il pass vaccinale per praticamente qualunque attività preveda di uscire da casa propria ed i festeggiamenti (non esenti da polemiche) che sono seguiti alla vittoria dei campionati europei di calcio da parte della nazionale italiana. Piroso tentava, con scarso successo, va detto, e per di più servendosi di un’ironia francamente stucchevole, di connettere i due eventi o, per meglio dire, di rendere uno dei due la giustificazione dell’altro: che gli italiani siano scesi in piazza dopo la partita vittoriosa contro l’Inghilterra dimostra che non si sanno comportare, e quindi hanno bisogno di qualcuno che imponga loro determinati obblighi. Di qui, la proposta a Draghi di rendere necessario il pass vaccinale per accedere alle partite di calcio, scelta che condurrebbe, nell’opinione di Piroso, ad un netto incremento delle prenotazioni per le vaccinazioni anti-Covid (messaggio sottinteso, caro a molti commentatori “politici”: agli italiani frega solo del calcio, che tempi, signora mia).

Rileggendo le righe precedenti, cariche di un sarcasmo di livello non molto superiore a quello messo in campo dall’eminente opinionstar, mi rendo conto di essere stato forse eccessivamente severo nei confronti di Piroso; in fin dei conti, si è solo applicato, con la massima dedizione possibile, ad un’attività che, ultimamente, sembra andare per la maggiore più del padel, nell’area cosiddetta “liberale” italiana: ossia, plaudire sperticatamente all’iniziativa di Macron (che, invece, avrebbe meritato secondo me più riflessione e, se possibile, più critica), proponendo metodi per importarla e renderla efficace anche in Italia. Il gioco, che molti paiono trovare divertente, è quello di andare a cercare quale sia l’attività che gli italiani continuano pervicacemente a praticare nonostante le molte, ripetute omelie sulla Geena, dove sarà pianto e stridore di denti, che attende coloro che praticano il terribile peccato dell’assembramento; e, contemporaneamente, quello di tacere sul fatto che ancora nessuno si è ancora azzardato a verificare quanti contagi, in questo tempo di pandemia che si sta ormai avvicinando al biennio, siano avvenuti nei luoghi di lavoro: dove, per altro, almeno a quel che mi risulta, i carabinieri, la polizia, l’esercito che hanno così eroicamente presidiato le nostre città (forse con l’intenzione di aprire il fuoco sul Covid non appena fosse loro passato davanti), soprattutto durante il primo lockdown, non sono mai andati a fare un controllo riguardo le più basilari misure di sicurezza. Piroso, tra le molte, ha scelto quella del tifo, che come detto è particolarmente inviso a coloro che si autoincludono nella categoria degli “intellettuali”: e questa potrebbe sembrare al più una scelta miope, in un momento in cui quegli stessi “intellettuali” che finiscono per divenire opinionstar non andrebbero molto lontano, senza dei tifosi da aizzare a favore o contro questo o quel provvedimento, politico, fatto; ma essa dimostra invece come Piroso ed i suoi colleghi spesso e volentieri non abbiano alcun contatto col mondo che pretendono di giudicare e, anzi, di cambiare.

Il calcio, infatti, nella realtà, e da molto prima della pandemia, non è più uno sport che si vive “in presenza”: esistono ancora le tifoserie organizzate, certo, ed occasionalmente (soprattutto in occasione di “grandi eventi” in “platee” particolarmente rinomate) le tribune si riempiono; ma, nella maggioranza dei casi, le squadre devono inventarsi qualche strategia di marketing (ad esempio, acquistare Cristiano Ronaldo…) per portare la gente allo stadio, dove per altro vige una politica dei prezzi che non favorisce certo il pubblico “popolare”, oppure, cosa che accade nella maggioranza dei casi, rassegnarsi all’idea che la massima parte dei loro proventi deriverà dalla vendita dei diritti televisivi delle proprie partite; e la televisione o, in tempi più recenti, lo streaming, è il mezzo attraverso il quale la maggior parte delle persone fruisce di uno sport divenuto globalizzato quanto pochi altri al mondo, per cui è anche difficile recarsi fisicamente a vedere la propria squadra del cuore che, magari, sta di casa a centinaia o addirittura a migliaia di chilometri di distanza (ci sono ragazzini abbagliati dall’oro che tengono per il Manchester City, eh): in una situazione del genere, in cui magari le persone “scendono in piazza” una volta l’anno per festeggiare uno scudetto (con risultati in termini di “diffusività” piuttosto risibili, per altro), davvero si ritiene che abbia un senso obbligare le persone ad avere l’ormai famigerato green pass, per consentire loro di andare allo stadio? E se sì, quale senso? Quello di abbattere il numero dei contagi o quello di militarizzare ancora di più il gioco del calcio?

Riflessioni di questo tipo (che anche un povero blogger, che nessuno ha mai chiamato a tenere una rubrica sulla Stampa, può fare) dovrebbero forse farci essere più critici sull’idea che “le fake news vengono dai social network”, convinzione diffusa (anche in malafede) che per altro ha paradossalmente consentito ai social network di divenire ancora più pervasivi e potenti; o, almeno, dovrebbe farci allargare maggiormente il campo, riguardo cosa significa stare su un social network: perché, talvolta, le blasonate opinionstar che firmano corsivi per il Corriere o strisce quotidiane per le radio lo fanno mettendoci un’attenzione non molto maggiore di quella del boomer di Voghera che inonda la sua bacheca Facebook di recriminazioni contro “Soros”, “i poteri forti” e “l’adenocromo”. Solo, usano meglio l’italiano.

12 thoughts on “Diventerai una star

  1. Pensieri sparsi: gli opinioni leader non sono altro che delle Ferragni vestiti da giornalisti, ma hanno un dono che li ha resi tale, ovvero il sapere usare il sarcasmo con dei pensieri sufficientemente icastici e sintetici (senza dover stare necessariamente nei 140 caratteri).
    Lettori di Repubblica bocca non buonissima? Su questo non sono molto d’accordo, anzi.
    Obbligo del green pass Macroniano (e anche un po’ draconiano, direi, e a breve anche in Italia): una sola parola, criminale. E quando, di fronte alla prossima variante, o a quella dopo, il vaccino sarà inefficace, che facciamo?

  2. Gli opinionisti generici a me non dispiacciono.
    Non sempre condivido i loro pensieri, ma aiutano (se uno vuole) a svilupparne un proprio, per tematiche che a volte non generano in noi particolare interesse, ma che poi si rivelano essere importanti o comunque degne di essere discusse.
    Mi piace molto meno quando l’opinionista assume come professione quello di essere opinionista. Il volersi mettere in vetrina ed il voler attirare le attenzioni su di sé, come fecero – e fanno – molti virologi nei momenti più caldi della pandemia. Non mi piacciono quando vogliono imporre le loro opinioni come fossero “verità”, quando è solo un pensiero espresso sul quale noi possiamo essere in totale disaccordo.

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