Se, intorno agli anni del liceo, mi avessero chiesto quale ritenevo essere la caratteristica precipua del mestiere di artista (argomento di discussione sorprendentemente frequente nel mio gruppo di amici), avrei innanzitutto manifestato la mia indignazione per il fatto che qualcuno ritenesse quello dell’artista un mestiere e, quindi, avrei risposto che, dovendo sceglierne una soltanto, senza dubbio avrei scelto l’estro. In quell’epoca, di fatti, ritenevo che un artista non avrebbe assolto al mandato della sua professione se non esponendo, nel modo più fragoroso possibile, delle emozioni; anzi, dirò di più: delle emozioni che gli appartenevano. In altri termini, per tutto il tempo che ho trascorso “nei pressi” della maggiore età, non ho fatto altro che chiedermi (e questa colpa è ancora più grave se si considera che già conoscevo ed intuivo che doveva essere vera quella frase notevole di Oscar Wilde, l’arte è l’arte di celare l’arte): ma se un artista non spiattella sulla tela che, mentre dipinge, il cuore gli sta sanguinando, allora a cosa diavolo serve, un artista? Un artista che non soffriva e, soprattutto, che non dimostrava di soffrire era, per me, una contraddizione in termini.
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