A Londra con dei bravi LADS – 4

(Chi fosse interessato a capire perché questo articolo si apre con dei puntini di sospensione, potrà appagare la sua curiosità con la puntata precedente di questa rubrica. A chi invece volesse comprendere cosa diavolo è, questa rubrica, consigliamo invece di recarsi qui)

… 43 di Lincoln’s Inn Field, dove si trova quello che Derren Brown ha dichiarato essere uno dei suoi luoghi preferiti di Londra.

A quell’indirizzo sorge un edificio di cui anche gli Autori hanno parlato, per la precisione a pagina 133 del Testo: qui si racconta di quel giorno del 1923 in cui Rudyard Kipling tenne un discorso nel Royal College of Surgeons, l’ordine professionale dei chirurghi britannici, la cui si sede si trova proprio al 43 di Lincoln’s Inn Field. L’occasione gli fu fornita da una cena degli iscritti, ed il controverso premio Nobel, stando a quanto riportato ne L’arte di stupire, sorprese allora i presenti, dichiarando che erano senza dubbio le parole, la più potente tra le sostanze assunte dagli esseri umani per alterare la percezione. O per aprirne le porte, come avrebbe detto un uomo di nome Aldous, vissuto insieme a suo padre Leonard ed a suo fratello Julian al numero 16 di Bracknell Gardens, dove i tre sono celebrati da una blue plaque che vi potrebbe far piacere andare a scoprire, anche se è parecchio lontana da Lincoln Inn’s Field.

Prescindendo dalla temerarietà della posizione di Kipling, comunque, qualcuno potrebbe trovare curioso che egli parlasse di fronte ad una platea di dottori; tuttavia, le occasioni di “frequentazione” tra lui e la classe medica dovevano essere più frequenti di quanto si possa immaginare. In alcuni suoi racconti, il letterato citò e descrisse medici realmente vissuti: in Rewards and Fairies, la raccolta da cui proviene anche la celeberrima poesia Se, ad esempio, si narra di un incontro tra una giovane donna ed il dottor René Laennec, l’inventore dello stetoscopio. Una ricerca su PubMed (il più grande aggregatore online di articoli accademici riguardanti la medicina) per “Kipling”, poi, restituisce ben 295 risultati, e due di questi (The River Tale sul The Hospital del 9 agosto 1919, L’Envoi sul Texas Medical Journal del maggio 1914) rimandano a testi firmati direttamente da lui. Ma è un terzo articolo ad attirare particolarmente l’interesse di chi, come noi, volesse saperne di più dell’evento narrato dagli Autori.

Il Canadian Medical Association Journal dell’aprile 1923, in un articolo a firma “A.M.”, riporta che il 14 febbraio di quell’anno sir John Bland-Sutton tenne una lezione appunto al Royal College of Surgeon. Bland-Sutton, che all’epoca di quell’istituzione era presidente, è stato un chirurgo tra i più importanti dell’inizio del Novecento, un pioniere della pratica ginecologica ed un personaggio assai noto tra i suoi contemporanei: al giorno d’oggi gli è dedicata una pagina su Wikipedia, mentre ai suoi tempi si guadagnò una caricatura nella sezione Man of the day del magazine Vanity Fair (solo omonimo di quello, americano, che si occupa di moda), la quale rappresentava una sorta di “galleria delle celebrità” della Gran Bretagna vittoriana ed edoardiana (nella sua quasi cinquantennale storia, vi comparvero Charles Darwin, Alexandre Dumas, Benjamin Disraeli, Napoleone III, tanto per citarne alcuni).

Tale fama non impedì comunque ad A.M. di descrivere la lezione di Bland-Sutton in maniera appena succinta (non viene ricordato neppure l’argomento di cui il celebre dottore trattò); grande spazio, invece, viene dedicato alla cena che seguì la conferenza, durante la quale fu appunto Rudyard Kipling, che era per altro buon amico di Bland-Sutton, a prendere la parola. Fin qui, le coincidenze con quanto raccontato dagli Autori sembrerebbero essere numerose e stuzzicanti; d’altronde, A.M. lascia pure una trascrizione (non sappiamo quanto fedele e completa) del discorso pronunciato, nel corso del fatidico pasto, da Kipling, e sembra che lo scrittore si sia occupato allora di tutt’altra materia ­(in particolare, dell’incessante ricerca compiuta dagli esseri umani per scoprire, infine, il divino che gli Dei hanno nascosto in essi), senza citare neppure di sfuggita il potenziale “psichedelico” delle parole.

La prolusione che nel 1923 venne affidata a Bland-Sutton prende il nome di Hunterian Oration e può vantare una tradizione bicentenaria, iniziata nel 1813 ed a tutt’oggi in corso: il 14 febbraio di un anno ogni due, un accademico di chiara fama tiene una lezione, seguita da una cena, all’interno del Royal College of Surgeons, su un argomento attinente l’anatomia comparata (altra grande passione di Bland-Sutton, che per otto anni lavorò come settore allo zoo di Regent’s Park), la fisiologia o la chirurgia. La data non è stata scelta a caso: in quel giorno, infatti, ricorre il compleanno dell’uomo che istituì la tradizione con le sue volontà testamentarie, il dottor John Hunter. Ed ecco che siamo arrivati al motivo per cui la sede del Royal College è uno dei luoghi del cuore di Derren Brown.

Hunter fu uno dei chirurghi e degli anatomisti più celebri del tardo Settecento. Come molte altre personalità di quel periodo storico cedette alla tentazione di costruirsi una wunderkammer, in cui raccoglieva soprattutto curiosità naturali e campioni utilizzati per l’insegnamento della chirurgia. Inizialmente, questa collezione era ospitata presso la sua casa-scuola al 28 di Leicester Square, oggi non più esistente (al suo posto c’è una caffetteria); nel 1799, quando comprendeva circa 14000 pezzi, il governo britannico la acquistò e la spostò, appunto, al 43 di Lincoln Inn’s Field: qui, essa divenne la base di quello che oggi è noto come Hunterian Museum, e che si trova al piano terra dell’edificio che ospita il Royal College of Surgeons.

Alcuni hanno descritto l’Hunterian Museum come “il più strano museo di Londra”, ma a ben vedere i reperti esposti non differiscono significativamente da quelli che si possono ammirare in musei simili sparsi in giro per il mondo: feti in formalina, tumori, resti umani affetti da varie patologie, organi animali sani o ammalati coprono scaffalature lunghe svariati metri ed alte fino al soffitto; l’ordinamento dei campioni segue l’anatomia topografica: qui quelli che hanno a che fare con il sistema circolatorio, lì quelli che sono stati tratti dall’apparato digerente, in fondo quelli che attengono al cervello ed al midollo spinale. D’altro canto, non si può certo affermare che manchino le curiosità ed i pezzi unici, alcuni dei quali decisamente estranei al campo delle scienze mediche: appartengono all’Hunterian Museum una collezione di protesi oculari (compresa una in cui la protesi è direttamente montata su un paio di occhiali); le Evelyn Tables, le più antiche preparazioni anatomiche giunte fino a noi, realizzate nel 1646 da Giovanni Leoni d’Este, settore dell’Università di Padova; il cranio di Winniepeg, l’orsa dello zoo di Londra che ispirò la creazione di Winnie The Pooh; due scimpanzé reggi-libro di rame, donati dalla vedova del dottor Bland-Sutton ed a quest’ultimo regalati da Rudyard Kipling; un servizio da tavola in argento in “stile assiro”, pure lascito della signora Bland-Sutton, proveniente dall’abitazione che il chirurgo si era fatto costruire come una perfetta replica del palazzo dell’imperatore persiano Dario a Persepoli.

Inoltre, fa parte della collezione (anche se non è in esposizione) lo scheletro del “gigante irlandese” Charles Byrne, che Hunter acquistò nonostante il diretto interessato avesse reso chiaro, in vita, di desiderare tutt’altro destino per le sue spoglie. La liceità di una tale scelta, assai lontana dalla nostra sensibilità, non è d’altronde l’unico dilemma etico che si aggira tra le mura dell’Hunterian Museum.

Nel 1824, ad esempio, morì a Londra una bambina di nome Caroline Crachami. Caroline era figlia di un attore siciliano emigrato in Irlanda, Luigi Emanuele Crachami; affetta da una forma di nanismo e nata in una famiglia numerosa, venne affidata dai suoi genitori ad un tale dottor Gilligan, delle cui credenziali mediche è lecito dubitare. Gilligan promise ai genitori di Caroline di portarla in Inghilterra per trovare una cura alla patologia da cui era affetta; il “dottore”, tuttavia, sfruttò invece la bambina, esponendola come un fenomeno da baraccone: ogni sera, Caroline riceveva, nonostante le sue cagionevoli condizioni di salute, fino a duecento spettatori, i quali pagavano uno scellino per “ammirarla” da lontano, o due, se volevano invece essere autorizzati ad un “esame” più ravvicinato. Per attirare maggior pubblico, Gilligan, che si spacciava per suo padre, dichiarava che Caroline, alta appena mezzo metro, avesse nove anni, mentre in realtà ne aveva appena tre. Lo stratagemma funzionò e la notizia dell’esistenza di un “esemplare” (non diversamente doveva considerarla la mentalità del tempo: appena tre anni dopo ad Edimburgo iniziarono gli assassinii di William Burke e William Hare, intesi a rifornire di cadaveri freschi le facoltà di medicina per le loro attività didattiche) così straordinario raggiunse un noto chirurgo, sir Everard Home, che è legato agli altri protagonisti della nostra storia: era infatti il cognato ed esecutore testamentario di Hunter (fu lui, in pratica, ad istituire l’Hunterian Oration) e prestava servizio presso il Chelsea Hospital, lo stesso ospedale in cui, cent’anni dopo, avrebbe lavorato anche Bland-Sutton.

Grazie ai buoni uffici di Home, per Caroline (e per Gilligan) si aprirono addirittura le porte della Carlton House, la residenza che il re, Giorgio IV, possedeva a Westminister: il sovrano incontrò Caroline, come raccontano le cronache, il 12 aprile di quel 1824. Meno di due mesi dopo, Caroline morì mentre rientrava nella sua casa di Duke Street; Gilligan, però, si convinse di non aver ancora ricavato abbastanza da quella povera creatura, ed iniziò a fare il giro delle scuole di medicina per chiedere se avevano intenzione di acquistare un cadavere tanto celebre ed interessante: infine, fu lo stesso Home ad indirizzarlo verso il Royal College of Surgeons. I settori del museo provvidero dunque a dissezionare il corpo di Caroline, ne fecero un calco del volto e della mano e, infine, ne esposero lo scheletro in una teca, proprio accanto a quello di Charles Byrne; invano il vero padre della bambina, frattanto arrivato a Londra, cercò di farsi restituire le sue spoglie, che ancora oggi appartengono all’Hunterian, nonostante siano state, da tempo, rimosse dal materiale che i visitatori possono ammirare.

Anche senza tutto questo, è comprensibile che l’Hunterian Museum possa sembrarvi troppo per il vostro stomaco; se è così, pensate che la collezione attuale non è che un terzo di quella che il Royal College poteva vantare al tempo in cui Kipling parlò nei suoi locali: nel 1941, infatti, una bomba incendiaria sganciata durante il Blitz colpì la sua sede, distruggendo gran parte dei reperti. D’altro canto, bisogna riconoscere che l’esperienza più surreale, all’interno dell’Hunterian Museum, non la si ha di fronte allo scheletro di narvalo che accoglie i suoi visitatori, al cranio di un mammut esposto poco lontano, o alle decine di cuori, polmoni ed intestini che li seguono: piuttosto, è lo sguardo carico di serietà e fierezza con cui le decine di ritratti dei passati presidenti del Royal College of Surgeons, appesi un po’ ovunque nell’atrio, squadrano il visitatore che attenda il suo turno per entrare nel museo, a costituire, a mani basse, il momento più grottesco che vive chi decida di dedicare un paio d’ore del suo tempo alla visita di questo edificio.

Nel Regno Unito esiste anche un altro Hunterian Museum dedicato all’anatomia ed alla chirurgia: si trova a Glasgow e prende il nome da William Hunter, fratello di John e suo primo maestro; al 43 di Lincoln’s Inn Field, un’intera stanza è dedicata a ricostruire il rapporto tra i due. Chi, invece, fosse animato da desideri “archeologici”, e volesse avere un’idea di come doveva presentarsi la collezione al tempo in cui era ospitata presso la casa che Hunter divise con la moglie Anne a Leicester Square, può trovare sul sito dell’istituzione una sua riproduzione.

E se vi trovate da queste parti, non dimenticate di attraversare Lincoln Inn’s Field: al numero 13 si trova infatti una bonus track, il sir John Soane Museum.

L’uomo che da il nome a questo museo visse qui nella stessa epoca in cui a Londra si muoveva John Hunter, e sta all’architettura come il dottore sta alla chirurgia britannica; al pari di lui, inoltre, fu un importante collezionista, ed anzi accumulò in casa sua una tale, curiosa raccolta di opere d’arte e pezzi rari che, mentre era ancora in vita, il Parlamento si accordò con lui per trasformarla in un museo, con un atto che divenne esecutivo quando Soane morì, nel 1837. Non lasciatevi però ingannare: sir John non era un filantropo e la sua volontà era, più che altro, quella di diseredare il figlio. Quest’ultimo aveva infatti rapporti tutt’altro che amichevoli col genitore e, tra le altre cose, aveva scritto una serie di articoli diffamatori in cui lo chiamava “imbroglione, ciarlatano e copione”. È a questa faida familiare che dobbiamo uno dei più ricchi tra i musei londinesi; nonché, uno dei meno convenzionali. 

Una delle clausole che John Soane impose alla Gran Bretagna, quando decise di lasciare alla collettività la sua abitazione e ciò che essa conteneva, fu che l’edificio e la collezione venissero conservati, per quanto possibile, nelle condizioni in cui lui le aveva lasciate: e dunque, ancora oggi il John Soane Museum assomiglia più ad una disordinata, claustrofobica, ricchissima soffitta che non ad un’esposizione organizzata secondo i canoni della moderna museologia.

Al suo interno si passa infatti da un armadio che contiene un quadro di Canaletto ad un’antichità romana, dalla statuetta in legno di un dio indiano ad un gigantesco sarcofago, quello di Seti I, completamente ricoperto di geroglifici, dalle stampe di sir Cristopher Wren (l’architetto che progettò la cattedrale di Saint Paul) alla serie originale del Rake’s progress, una raccolta di quadri satirici che ebbe una grande circolazione, attraverso stampe e copie, nella Londra del Settecento, da una raccolta di cammei al giardino che accoglie delle finte antichità medievali che sir Soane, fautore di un severo neoclassicismo, aveva realizzato per dimostrare quanto facile fosse aderire ai canoni del gothic revival che stava esplodendo negli ultimi anni della sua vita, e che avrebbe caratterizzato l’epoca vittoriana (il progetto per la ricostruzione del palazzo di Westminister, distrutto da un incendio, è del 1836); e non bisogna credere che gli interessi di sir John si fermassero all’arte, perché anche la storia naturale, tra queste mura, ha il suo posto: ad esempio, tra i reperti esposti si trova una zanna di elefante.

In definitiva, in un’epoca che ha cercato di fare dell’ordine la sua ragion d’essere, il Sir John Soane Museum è uno dei pochi luoghi in cui è possibile (per altro, senza pagare alcun biglietto d’ingresso) comprendere la sensazione che si doveva avere entrando, alla fine del Settecento, in una wunderkammer. Certo, anche qui le questioni etiche sono notevoli: è lecito che il sarcofago di un faraone egizio del XIV secolo avanti Cristo sia conservato a Londra? D’altronde, sir John Soane è quasi omonimo di sir Hans Sloane, l’uomo a cui si deve la fondazione del British Museum.

Che è il luogo di Londra presso cui sono conservati i marmi del Partenone, di cui la Grecia continua a richiedere invano, da decenni, la restituzione.

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