Il sorriso sornione di Mbappé

Per chi legge questo blog da qualche tempo, il mio amore per il calcio sarà ormai il proverbiale segreto di Pulcinella.

Su queste pagine mi è infatti più volte capitato di parlare del gioco del pallone: nella maggioranza dei casi, perché ritenevo che ciò che accadeva nel “microcosmo” degli stadi fosse uno strumento utile per interpretare le dinamiche che si dispiegavano nel “macrocosmo” esterno ad essi, soprattutto in Italia, dove quello sport è uno dei più efficaci palliativi di fronte alla scomparsa di ideologie e religioni più tradizionali; nei restanti, e forse in quelle occasioni sono stato più sincero, perché per spiegare bene chi sono esso è imprescindibile: è stato infatti una presenza costante nella mia vita ed ha fatto “da sfondo” ad alcune delle decisioni più significative per la costruzione della persona che sono adesso. Tanto per fare un esempio: devo al calcio la scelta di diventare medico.

Non vi coglierà di sorpresa, dunque, scoprire che sto seguendo il campionato europeo di calcio, in questi giorni in corso di svolgimento in Germania; in particolare, qualche sera fa mi sono sintonizzato su Rai Uno (evento con pochi e forse nessun precedente, negli scorsi mesi) con l’intenzione di vedere il match inaugurale del girone D, in cui si affrontavano, sul campo di Dusseldorf, la Francia, probabilmente la squadra più forte al mondo e senza dubbio la migliore a livello continentale, e la più modesta Austria. 

È stata una pessima idea: credo infatti di non aver mai provato un simile fastidio guardando una partita di pallone.

Una parte di questa insofferenza, lo riconosco, è conseguenza del fatto che l’impostazione “tattica” del gioco attuale mi risulta a volte incomprensibile. Sono infatti cresciuto quando andava di moda una versione del calcio assai più “casereccia”: il portiere toccava la palla quasi esclusivamente con le mani, e tanta grazia se effettuava i rinvii dal fondo; i difensori dovevano stare attenti a non sorpassare il sacro confine del centrocampo, per non rischiare la crocifissione in sala mensa; il pressing era appannaggio di poche, elette compagini, e spesso si risolveva in un disastro; la maggior parte degli schemi d’attacco passava per una penetrazione fino alla linea di fondo, da cui mettere in mezzo una palla che qualche pennellone alto alto, solitamente non favorito dal dono misterioso del Talento ma gagliardo dal punto di vista fisico, avrebbe cercato di girare in porta: con la testa, con la spalla, col petto, se necessario anche con le natiche, purché non la colpisse coi piedi (che sarebbe poi lo scopo del gioco). Erano, per capirci, i tempi in cui Pasquale Luiso, eroe del calcio di periferia (la sua carriera è per altro decollata nella città in cui io sono cresciuto), che oggi non verrebbe accettato in una squadra nemmeno per fare il magazziniere, poteva permettersi di dichiarare in un’intervista: se i miei compagni mi crossano una lavatrice, io colpisco di testa anche quella.

Oggi, invece, la costruzione della manovra inizia dalla propria area di rigore, ed è fondamentale che il portiere sappia giocare con i piedi tanto bene che con le mani; tutti gli undici in campo sono chiamati a contribuire alla fitta, ed a volte infinita, rete di passaggi, spesso orizzontali (una bestemmia, per chi è cresciuto calcisticamente negli anni Novanta) o “retrodiretti”, che hanno lo scopo di aprire degli spazi in cui possa insinuarsi un attaccante che non di rado attaccante non è (con termini iberici, si definisce un falso nueve, un finto nove, numero di maglia tradizionalmente indossato dal centravanti), piccolo, agile e straordinariamente dotato, che con una magia possa superare l’estremo difensore avversario e far gonfiare la rete. È un gioco che, se vogliamo rubare una definizione agli scacchi, potremmo chiamare “posizionale”, in cui più che cercare di avanzare è fondamentale occupare lo spazio, attendendo pazientemente che gli avversari facciano un errore che possa essere vantaggiosamente sfruttato. Una “guerra di trincea” che, come tutte le guerre di trincea, è logorante: e non solo per chi difende, ma anche per chi vorrebbe vedere una partita di calcio, e non undici marcantoni in calzoncini che continuano a girarsi la palla come se stessero facendo un torello.

D’altronde, non sono un boomer. Non così tanto, almeno, da non capire che il problema è mio, e non del gioco del calcio: so benissimo che quella in corso è non una sua involuzione, ma una sua evoluzione, con per altro alle spalle una lunga e gloriosa storia che inizia con l’Olanda di Johann Cruijff e raggiunge piena maturazione nel Barcellona di Pep Guardiola; è un’evoluzione che non mi piace, ma questo è un mio limite e non ha nulla a che fare con degli eventuali “guasti” del gioco: e, quindi, non è questa idiosincrasia che spiega il fastidio che ho sperimentato durante Francia-Austria (nonostante i bleus siano tra i maggiori interpreti di questo nuovo corso); no, quello che mi ha irritato sono stati alcuni episodi occorsi durante la partita e, soprattutto, l’atteggiamento che li ha provocati: per l’intera durata della partita, infatti, si è percepito assai chiaramente che l’intenzione della Francia era non vincere, bensì dimostrare che avrebbe potuto stravincere, anche schierando dieci riserve bendate, se solo avesse deciso di considerare l’Austria un avversario alla sua altezza; ed invece, per tutto il primo tempo e per buona parte del secondo, Ousmane Dembélé e Marcus Thuram, i due terzi dell’attacco transalpino, hanno badato molto di più ad impreziosire (si fa per dire) ogni loro giocata con una finezza, un doppio passo, una finta, un tentativo di dribbling con destrezza, che a cercare di segnare. Emblematico, direi. 

Questo esasperante misto di autocelebrazione ed indolenza ha fruttato ai francesi uno striminzito uno a zero, per altro maturato grazie ad un disgraziato autogol di Maximilian Wöber; e bisogna riconoscere che è stata solo la sfortuna a negare all’Austria un pareggio che sarebbe stato più che giusto, visto l’evidente rifiuto della squadra danubiana di arrendersi al ruolo di vittima sacrificale per cui sembrava essere stata designata: e forse è stato questa indisponibilità a riconoscere per principio che i francesi erano superiori ad aver provocato il nervosismo di Antoine Griezmann, che ad un certo punto ha mandato a quel paese un difensore che era andato a scusarsi con lui dopo un fallo.

Ma questo non è stato neppure il momento più basso della partita (per altro, Griezmann va così famoso per le sue intemperanze da essersi guadagnato il soprannome di petit diable); e, vi stupirò, non lo è stato neppure il teatrino messo su, verso la fine della partita, da Kylian Mbappé, uno dei più celebrati (e pagati) attaccanti al mondo: colpito al naso durante un’azione, Mbappé ha prima chiesto l’intervento del medico, poi è uscito dal campo, quindi vi è rientrato, solo per accasciarsi al suolo dopo cinque o sei passi. Un comportamento così antisportivo che perfino l’arbitro, fino a quel momento piuttosto clemente con i francesi (che sembrava fossero saltati su una mina antiuomo ogni volta che un avversario si avvicinava loro), si è visto costretto ad ammonirlo.

No, per quel che mi riguarda il premio per episodio peggiore di Francia-Austria va sì a Mbappè, ma non per questo maldestro tentativo di perdere tempo, bensì per quanto accaduto intorno al decimo minuto del secondo tempo: Mbappé si è allora ritrovato a tu per tu con Patrick Pentz, portiere dell’Austria, in una situazione di gioco che, sul campo di qualunque oratorio, si sarebbe conclusa con un gol; e così, badate, sarebbe stato anche a Dusseldorf, non fosse che il campione ha deciso non di tirare come avrebbe fatto qualunque comune mortale, con una rasoiata dritto per dritto che è sicuramente nelle sue capacità, ma di tentare di aggirare Pentz con un lezioso tiro ad effetto che si è mestamente spento sul fondo; e, a commento di questo clamoroso errore, Mbappé si è poi allontanato, con stampato sul volto il sorriso sornione di chi sa di potersene altamente fregare delle sue azioni. E forse sta proprio qui il punto.

Scrivevo, in apertura, che a volte il calcio rappresenta una lente perfetta per leggere quel che accade nel mondo; e l’evidente indifferenza di Mbappé alle regole, anche non scritte (per esempio, quelle che impongono il rispetto dell’avversario), del calcio, è il perfetto corrispettivo sportivo della sostanziale (e negativa) anarchia in cui vivono personaggi come i padroni dell’informatica; se non altro, perché analoghe sono le motivazioni sottese al loro trasparente disprezzo per le più basilari regole della vita sociale e/o sportiva. Supponiamo che qualcuno vada a dire a Mbappé che non può gettarsi a terra a quel modo per un po’ di epistassi, o che non può irridere i suoi avversari come se non meritassero che lui giochi al meglio delle sue (amplissime) possibilità: la risposta più probabile, di più, la risposta più naturale che salirebbe alle labbra del numero 10 francese sarebbe “Senti, io guadagno in un anno più di parecchie imprese. Cosa vuoi fare, cacciarmi? È per vedere me che la gente paga il biglietto”.

Una risposta che, credo, Zuckerberg, Musk o Bezos sarebbero ben felici di applaudire.

12 thoughts on “Il sorriso sornione di Mbappé

  1. Comprendo il senso delle tue parole ed è un’analisi molto interessante che andrebbe approfondita, però devo fare due correzioni:

    il gioco di posizione non nasce con Cruijff ma con Jack Reynolds (maestro di Michels);

    la Francia di Deschamps non è espressione del calcio posizionale bensì di quello relazionale.

    • Su Cruijff hai ovviamente ragione, ma la popolarizzazione di quel modo di giocare a calcio è iniziata con quell’Olanda. Che in fin dei conti se vogliamo da quel punto di vista è stata anticipata anche dalla Dinamo Kiev degli anni Sessanta.

      Sul secondo punto invece mi taccio. Ho usato il termine posizionale in senso lato. Ad ogni modo, se vuoi scrivere un approfondimento sul tema sarò ben felice di ospitarlo!

  2. Non tutte le evoluzioni sono un miglioramento: la ripartenza dal basso va vene SOLO se hai un portiere dai piedi buoni, almeno un difensore dai piedi buoni, ed un centrocampista/regista dai piedi ottimi (per capirci: nel mio Milan questo centrocampista manca, o forse dovrebbe esserlo Bennacer, ma nell’ultimo anno ha latitato).
    Vedere squadre che partono dal basso senza arte né parte, è una cosa inguardabile, il più delle volte il pallone finisce nei piedi dell’avversario nelle vicinanze della propria area di rigore…

    Mbappé è forte ma a me non piace, l’ho detto spesso anche agli amici. Ha un atteggiamento di superiorità che non si addice ai giocatori più grandi, sebbene lui sia obiettivamente forte. Ma non è “umile”, o almeno non lo è per i motivi che hai tu esposto.

    Io stravedo per Bellingham. A mio avviso è immensamente forte, ed è giovanissimo.

    • Be’, ma il discorso non può essere fatto sulla base delle squadre meno forti. Semmai il punto dovrebbe essere che chi è capace gioca in quel modo, e chi no all’antica. Il problema è che tutti pretendono di giocare così, semmai.

      Il punto però non è la mancanza di umiltà: Gascoigne anche era strafottente, ma è stato uno dei giocatori più adorato della storia; Cantona uguale. Il punto è: perché Mbappé è strafottente?

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