Più duraturo del bronzo

Vide ut stet nive candidum/Soracte nec iam sustineat onum/silvae laborantes geluque/flumina constiterint acuto.

Potremmo liberamente tradurre tali versi latini più o meno come segue:

Guarda, si erge il Soratte candido di neve, e già non riescono più a sostenere il loro peso gli affaticati boschi, ed i corsi d’acqua, per il gelo intenso, arrestano la loro corsa.

Questa vivida descrizione di come appare l’arrivo dell’inverno a chi lo viva appena fuori da Roma (il Soratte, nel comune di Sant’Oreste, è un monte, l’unico che sia visibile a chi, dall’Urbe, guardi verso nord) risale a pochi anni prima della nascita di Cristo; la dobbiamo a Quinto Orazio Flacco, che con essa aprì una delle sue Odi più giustamente famose, la nona del primo libro. Alcuni anni fa proprio questo componimento, apocrifamente intitolato Ad Thalaricum, colpì a viva forza l’immaginazione di un convenzionale diciassettenne che avrebbe dovuto avere, ed infatti aveva, tutt’altri interessi: così a viva forza, in effetti, da superare il muro di tedio che un mattone alla volta aveva costruito il tono cantilenante con cui lo stava declamando una professoressa di latino e greco la cui passione per la materia, che si intuiva un tempo essere stata grande, era stata un poco offuscata dall’approssimarsi dell’età pensionabile; così a viva forza, in effetti, da costringere quel diciassettenne, che ovviamente credeva di sapere e di aver capito già tutto, a rivedere radicalmente, forse per la prima volta nella sua vita, o almeno da quando era entrato nell’adolescenza, una sua opinione. Nella fattispecie, quella che si era fatto di Orazio, il poeta forse più grande dell’età augustea.

Quel diciassettenne sono, o per meglio dire ero, io. Sapevo solo una cosa di Orazio, e cioè che il mio adorato (allora come ora) Bertolt Brecht lo aveva definito, in un suo tema di gioventù, “il grasso giullare dell’imperatore”: per me non era altro che un arrivista ipocrita e leccaculo, che aveva surrettiziamente abbandonato gli ideali repubblicani, praticati e difesi armi in mano in gioventù, per divenire uno dei principali propagandisti del principato augusteo; uno che, pur di mostrarsi più realista del re, era addirittura arrivato a comporre quel verso infame (lui, che aveva anche ammesso di essersela data a gambe per la paura durante una battaglia!) che afferma che dulce et decorum est pro patria mori, è dolce e bello morire per la patria: lo slogan dietro il quale, plagiati da governi di ogni foggia e colore, si erano silenziosamente allineati, pronti ad essere intruppati, ragazzini poco più grandi del me che ero allora, felici di andare a farsi massacrare o, peggio ancora, di andare a massacrare, per regalare a qualche impero (quello romano, o quello americano che ai tempi aveva appena iniziato ad impantanarsi in Afghanistan ed Iraq) un nuovo pezzettino di carta geografica.

E, intendiamoci: Orazio è stato davvero tutte queste cose; ma l’Ad Thalaricum dimostra con evidenza che è stato anche altre cose, e che sarebbe al minimo ingiusto crederlo un pessimo artista, solo perché fu un uomo con dei difetti (verso i quali, per altro, oggi sono assai più tollerante di allora, visto che ho compreso cosa significa essere costretti a sopravvivere in tempi difficili). Quella poesia mi rivelò un Orazio sorprendentemente diverso, animato da inquietudini molto moderne, schiacciato come un filosofo esistenzialista dall’implacabile scorrere del tempo, amante, in modo quasi crepuscolare, delle “buone cose di pessimo gusto”: un poeta con cui non dovevo necessariamente scontrarmi e che non potevo rifiutare, ma che anzi era capace di parlarmi, ad oltre duemila anni di distanza. Imparai prima ad apprezzarlo, e poi ad adorarlo, e probabilmente è il singolo autore che sono più felice di aver studiato durante i miei anni liceali. Grazie, prof, per averci letto l’Ad Thalaricum, anche se quel giorno non ne aveva voglia.

Un’estate di cinque o sei anni dopo, tornavo da una vacanza in Toscana insieme ai miei genitori e a mio fratello. La nostra scalcagnata Fiat Multipla mille e nove turbodiesel viaggiava in direzione sud, la valle del Tevere scorreva fuori dal finestrino, mio fratello sonnecchiava beato a due sedili di distanza, ed io di tanto in tanto rispondevo a qualche sms (non possedevo ancora uno smartphone e stavo convincendomi che forse sarebbe stato meglio non possederlo mai: inascoltata saggezza di gioventù), ma più che altro pensavo che di lì a qualche settimana avrei dovuto dare l’esame di radiologia medica; il liceo era finito, mi ero iscritto all’università, e da quando avevo fatto la maturità non avevo più pensato ad Orazio. Eppure, quando nel mio campo visivo comparve il cartello autostradale che indicava che di lì a poco saremmo sfilati accanto all’uscita di “Ponzano Romano – Soratte”, una connessione neurale su cui l’oblio credeva di aver avuto la meglio si riaccese d’improvviso: feci violenza a mio padre, che stava guidando da oltre due ore e non desiderava altro che sottrarsi al folle traffico agostano, e lo costrinsi a prolungare il tragitto di un paio di chilometri, e di un’altra oretta almeno, per una deviazione che interessava me, e me soltanto; fu così che, sotto un solleone che era l’esatta antitesi della candida neve che lo aveva coperto in quell’inverno che di poco precedette l’inizio dell’Era Volgare, trascinai la mia famiglia in cima ad un monte che per me significava qualcosa solo perché me ne aveva parlato un uomo del quale, la prima volta che lo conobbi, non esistevano più neppure le ossa.

Talvolta mi chiedo se Orazio credesse davvero a quanto orgogliosamente affermava, altrove, nelle Odi, ossia che quella che aveva costruito attraverso la scrittura era un’opera “più duratura del bronzo”; personalmente, ho sempre ritenuto che questo particolare verso fosse una millanteria: non di meno, si tratta di una millanteria vera. Lo dimostra la mia storia; ancora di più, lo dimostra la vicenda di Heinrich Kreipe e Patrick Leigh Fermor.

Quantomeno singolari sono le circostanze in cui i due, tedesco il primo, britannico il secondo, si incontrarono a Creta: accadde infatti perché a Fermor era stato affidato l’incarico, portato a termine con successo, di rapire Kreipe. Quest’ultimo, negli anni Quaranta in cui questa storia si ambienta, era un ufficiale della Wehrmacht agli ordini di un generale che, sull’isola greca, aveva compiuto azioni così eroiche da guadagnarsi l’affettuoso nomignolo di “macellaio di Creta”; logico quindi che se la fosse data a gambe, quando gli eserciti degli Alleati, a cui Fermor era aggregato come agente del servizio di spionaggio, erano giunti sull’isola. Fermor avrebbe dovuto inizialmente “prelevare” il Macellaio; resosi indisponibile quest’ultimo, ripiegò sul suo secondo, appunto Kreipe, e con l’aiuto di un gruppo di partigiani greci, lo raggiunse e lo catturò. Imprigionato in una delle molte grotte che caratterizzano il frastagliato paesaggio dell’isola greca, una mattina Kreipe osservò il profilo del monte Ida incappucciato dalla neve e, grande appassionato di Orazio, venne colto da un parallelismo ed iniziò a declamare: vide ut stet nove candidum Soracte; con sua sorpresa, udì la voce di Fermor, suo carceriere e a sua volta patito di poesia classica, che proseguiva: nec iam sustineat onum, eccetera eccetera.

Due uomini, nominalmente nemici, che nel bel mezzo di uno dei momenti più oscuri ed abietti che l’umanità abbia mai vissuto, si riconoscono nelle parole di un terzo uomo, insignificante agli occhi della Storia che anche loro stanno contribuendo a scrivere.

Se mi chiedessero cosa significa cultura, non saprei darne una definizione migliore.

3 thoughts on “Più duraturo del bronzo

  1. non sapevo di questo giudizio di Brecht su Orazio, o forse l’ho dimenticato.

    da un lato è molto strano, dato che a me pare che proprio Orazio sia il modello stilistico al quale si rifà Brecht, che ripropone un poesia classica e un teatro razionale contro tutti gli espressionismi post-romantici o i giochi linguistici poetici fini a se stessi.

    ma nello stesso tempo la sua stroncatura per motivi moralistico-politici di Orazio ha molto di staliniano ed ha il sapore amarissimo delle purghe contro l’arte non allineata (in questo caso anche postume): del resto, una vera e propria anticipazione della cancel culture dei nostri giorni…

    • È un giudizio che Brecht espresse in un tema scolastico, e secondo me da adulto se lo sarebbe rimangiato: d’altronde, l’alternativa all’allineamento (perché era Orazio era un poeta allineato) è l’esilio, che per Brecht fu amarissimo.

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