Chi può dire cosa è bene e cosa è male?

L’esperienza della magia di Eugene Burger è, a modesto parere di chi scrive, uno dei testi più importanti della storia dell’illusionismo.

L’esperienza della magia di Eugene Burger è, pure, un eccelso rappresentante di quella categoria di testi che possiedono questa curiosa, e piuttosto rara, caratteristica: sono capaci di dire qualcosa anche a chi è completamente digiuno dell’argomento, ultraspecialistico, di cui si occupano. Questo è il motivo per cui più volte, in passato, mi è capitato di consigliarne la lettura su queste pagine, nonostante tra i miei lettori non possa annoverare nessun collega prestigiatore: ma in futuro chissà, a furia di insistere…

Ad ogni modo, credo che l’universalità de L’esperienza della magia derivi in parte dal fatto che il suo autore, prima di divenire illusionista professionista, era stato professore di filosofia e teologia, e conosceva in maniera approfondita le religioni e, soprattutto, la religiosità orientale; questo retroterra emerge di tanto in tanto nel suo volume, e contribuisce a renderlo assai affascinante. Ad un certo punto, ad esempio, Burger riporta un racconto zen che si potrebbe riassumere, più o meno, come segue.

Un uomo possedeva un cavallo che, una notte, fuggì dal suo recinto. I vicini dell’uomo, venutolo a sapere, andarono a trovarlo e lo compiansero per la sua sfortuna. L’uomo rispose loro: “Chi può dire cosa è bene e cosa è male?”. Il figlio dell’uomo si mise alla ricerca del cavallo fuggitivo e, infine, lo trovò in una vallata poco distante, dove trovò, pure, altri due cavalli, selvaggi, che riuscì ad imbrigliare ed a portare a casa. I vicini dell’uomo si rallegrarono per quanto aveva guadagnato, ma lui si limitò a commentare: “Chi può dire cosa è bene e cosa è male?”.

Mentre il figlio dell’uomo cercava di addomesticare uno dei due cavalli, questo si imbizzarrì e lo disarcionò, facendolo ruzzolare a terra; nella caduta, il ragazzo si ruppe una gamba. Giunsero ancora i vicini, con alti lamenti; ma l’uomo non sembrava preoccupato, ed ancora una volta disse: “Chi può dire cosa è bene e cosa è male?”. Poco tempo dopo, vennero nella provincia gli ufficiali dell’imperatore, per arruolare dei giovani per una guerra; giunti alla casa dell’uomo, videro che suo figlio aveva una gamba rotta, e lo scartarono. I vicini sentenziarono che era stato assai fortunato, ma l’uomo aveva un’altra idea… potete ben immaginare quale.

Un post del mio amico bortocal, pubblicato qualche giorno fa sul suo blog e significativamente intitolato Che puttanate gli oroscopi…, mi ha fatto tornare in mente questo piccolo brano di saggezza orientale. Scopo di quell’articolo era infatti dimostrare questa tesi: l’astrologia, e più in generale la divinazione, ha torto anche quando ha ragione (ovvero, ma questa è una mia chiosa, ha ragione anche quando ha torto); per giustificare questa sua opinione, che alcuni potrebbero giudicare temeraria, bortocal argomentava, in maniera piuttosto convincente ed attingendo da alcune disavventure capitategli, che in verità è impossibile decidere se un oroscopo ha ragione oppure no: non solo perché quello che per gli astrologi è un evento imprevisto potrebbe in realtà essere conseguenza di una serie di cause che risale a ritroso molto indietro nel tempo, ma anche e soprattutto perché quello che oggi, in accordo con quanto l’oroscopo ci predice, potrebbe sembrarci un fatto positivo (“ti giungerà un guadagno imprevisto”), domani, quando dell’oroscopo ci saremo dimenticati, potrebbe invece rivelarsi fonte di tanti e tali grattacapi da qualificarsi come negativo, se non nefasto (“e su quel guadagno devi pagarci delle tasse, ed una sanzione salata per esserti dimenticato di dichiararlo al fisco”). Detto in altri termini: non si può sapere, sul momento, se quello che ci sembra vero, o buono, si confermerà vero, o buono, a lungo termine.

Non si può sapere, sul momento, cosa è bene e cosa è male.

Sarà stata forse la coincidenza temporale tra la conclusione della campagna elettorale per le europee e quell’articolo di bortocal, ma, mentre nei commenti di quest’ultimo ripetevo il racconto zen di cui ho messo a parte anche voi, mi sono improvvisamente reso contro che questa incapacità di “vedere il futuro” (che è generalizzata, e non limitata semplicemente a coloro che “consumano”, e presumibilmente credono, all’oroscopo ed a simili forme di “previsione metafisica”) è uno dei più grandi limiti della democrazia rappresentativa; questa, infatti, si basa su un pressuposto, taciuto ma evidente: gli elettori, quando chiamati ad esprimere le proprie preferenze, sapranno decidere chi meglio saprà difendere i loro valori e/o i loro interessi non solo sul momento, ma anche a lungo termine; sapranno decidere, insomma, cosa è bene e cosa è male in senso quasi assoluto. Tutte le “democrazie occidentali” delle cui istituzioni sappia qualcosa, infatti, prevedono un intervallo tra le tornate elettorali piuttosto lungo, prossimo usualmente al quinquennio, e questa è anche la durata di un mandato del parlamento europeo: perfino San Marino, che cambia i capi del governo ogni sei mesi, si allinea in questo all’andazzo più comune in quello che, un tempo, si chiamava “primo mondo”.

In un contesto del genere, si può essere il più scrupoloso elettore del mondo, si possono studiare i programmi di ogni partito, confrontrarli tra loro e con le proprie convinzioni ed i propri bisogni, si può seguire l’andamento della politica nazionale ed internazionale: si possono fare tutte queste cose, ed altre ancora, ma ad ogni modo non si potrà mai sapere se quanto promesso dalla persona a cui stiamo affidando il potere si rivelerà avere gli effetti che abbiamo creduto; soprattutto, non si potrà mai sapere se i nostri governanti saranno chiamati a decidere su quelle questioni per cui li abbiamo votati, e non su altre. Un esempio chiarirà cosa voglio dire.

In queste ore si fa un gran parlare, e giustamente, della sconfitta patita in Francia dall’intollerabile Emmanuel Macron, e sulle motivazioni che possono averla provocata. Alcuni hanno chiamato in causa la deriva, decisamente bellicistica, assunta dalla sua politica estera negli ultimi mesi, da quando cioè l’inquilino (ora con avviso di sfratto) dell’Eliseo si è convinto che sarebbe potuto essere capace di fare quanto è risultato impossibile perfino per Napoleone, e cioè conquistare la Russia. Questo può darsi, come può darsi che Macron si sia giocato la fiducia dei francesi reprimendo col pugno di ferro, e soprattutto ignorando, gli scioperi di qualche anno fa: ad ogni modo, quello che mi interessa qui non è fare un’analisi delle cause sottese al roboante fallimento elettorale di Macron, anche perché quell’analisi si ridurebbe ad una sola parola, supponenza; non mi interessa, neppure, rilevare l’ovvio, e cioè che con ogni probabilità i sostituti che i cugini d’Oltralpe sembrano aver designato per il suo ruolo non si mostreranno meno sconsiderati.

No, il problema che qui voglio affrontare è il seguente: supponiamo pure che il voto dei francesi esprima un rifiuto, di più, un rigetto per la “corsa agli armamenti” che il futuro ex presidente francese aveva scopertamente avviato; se è così, quel rigetto è maturato attorno ad una questione che, quando, sette anni fa, a Macron sono state affidate le chiavi della “sala dei bottoni” non aveva alcuna rilevanza o, almeno, ne aveva molta meno che adesso. Nel 2017, i francesi non potevano sapere che cinque anni dopo la guerra in Ucraina (che all’epoca era già in corso, sia pure ad un livello di intensità meno incandescente) sarebbe entrata in una nuova fase con l’invasione del territorio ucraino da parte dei russi e che, sette anni dopo, il loro capo di stato sarebbe stato chiamato a decidere se mandare o no, ad un uomo di nome Volodymyr Zelens’kyj (che a quei tempi faceva ancora il comico in televisione) armi ed istruttori militari (per ora, poi Dio provvede). Perché suppongo che altrimenti avrebbero dirottato i loro voti su un altro candidato: non so voi, ma se io l’avessi saputo, non l’avrei eletto nemmeno presidente di una bocciofila, figuriamoci di uno stato.

Tutto ciò, significa una cosa soltanto: e cioè che il votante, quando mette la sua croce su uno dei molti simboli che impreziosiscono le coloratissime schede elettorali che, di tanto in tanto, un educato scrutatore ci mette in mano, lo fa affidandosi non a delle considerazioni razionali o a delle deduzioni logiche, bensì a degli oroscopi. E d’altronde, già vent’anni fa Daniele Luttazi (ne ho parlato altrove) aveva parlato della possibilità di integrare la divinazione nella pratica politica, dicendo durante una puntata di Satyricon: paghiamo una cartomante, ce lo dice lei chi ha vinto; ai tempi, quando ancora sembrava che la pratica del voto significasse qualcosa (d’altronde, non c’erano ancora stati il Porcellum e la lunga serie di desolanti legge elettorali che l’hanno seguito), la sua poteva essere considerata nulla più che una battuta, ma oggi essa rischia di diventare una seria e rispettabile proposta di riforma costituzionale.

In fin dei conti, affidarsi alla posizione dei pianeti per decidere chi deve assumersi la responsabilità di governare è qualcosa di non molto diverso rispetto a quello che facciamo abitualmente; e comunque, “pagare una cartomante” sarà sempre meglio del presidenzialismo che Giorgia Meloni è così decisa a perseguire, soprattutto ora, che gli italiani (intendo, quella percentuale di italiani, lievemente inferiore al cinquanta per cento, che sabato e domenica scorsa è andata alle urne invece che al mare) sembrano averle confermato la loro fiducia.

3 thoughts on “Chi può dire cosa è bene e cosa è male?

  1. questo post è di una acutezza così disarmante da bloccare la voglia stessa di commentarlo. io da lettore partecipe e strumentalizzatore (come credo siano e anzi debbano essere tutti i veri lettori) lo inserisco come testo fondamentale nella mia serie mentale delle critiche alla democrazia rappresentativa.
    che poi diventa, ahimè, una critica alla democrazia tout court, perché altre forme di democrazia sono esposte allo stesso rischio, salvo riforme politiche davvero molto difficili da perfezionare. la democrazia originaria non soffriva di queste radicale perdita di senso, perché i pochi cittadini (i proprietari maschi) di riunivano in piazza per deliberare, e le cariche pubbliche erano estratte a sorte, tanto poco erano importanti. ma durò talmente poco da risultarci oggi quasi un fantasma della storia.
    (sono contento di avere occasionato questa riflessione che si spinge tanto oltre la mia, naturalmente):

    • Che poi io lo sento come un grandissimo fallimento, dover ammettere che la democrazia ha così tanti limiti. Perché le alternative, tolta la democrazia diretta che è difficilissima da organizzare, non mi paiono molto migliori. Anzi.

      • l’età mi rende più cinico di te: la democrazia è soltanto una variante più complicata e costosa delle alte per assicurare il potere di determinate élite che è il vero dato di continuità della storia umana. si poteva pensare semmai che la democrazia fosse più adatta a sostenere il potere della élite borghese, cioè della aristocrazia produttiva, mentre la monarchia assoluta o il potere feudale garantivano meglio il potere di altri tipi di élite.

        oggi dobbiamo riconoscere che stiamo assistendo alla distruzione stessa della borghesia, detta anche ultimamente classe media, ad opera di un nuovo tipo di élite sociale che è la nuova plutocrazia finanziaria, che arriva al profitto con metodi nuovi, che rendono la produzione e la vendita di merci sempre meno centrale.

        è evidente che la crisi della classe che l’ha inventata è la crisi più radicale e irrisolvibile della democrazia stessa. i nuovi giganti economici hanno bisogno di poteri al loro servizio, forti e impositivi rispetto ai loro sudditi, che perdono via via la qualifica stessa di cittadini.

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