Alcuni appunti sul fantasy

A Murasaki

Ad aver causato questo articolo sono stati: gli accenni alla letteratura fantastica che ho voluto inserire nel post che precede questo; la visione (credo casuale) di un video di YouTube che diceva essenzialmente le stesse cose che io dico qui; una mole di appunti su questo argomento che continuava a crescere, e che ora non ci sarà più bisogno che io rimetta in ordine.

Faccio questa premessa perché voi possiate comprendere cosa sia, questo post: un divertisment ferragostano; un tentativo (assai artefatto) di dare una forma almeno apparentemente razionale ad un’idiosincrasia che credo essere istintiva ed assolutamente invincibile. Una tale, palese dichiarazione di inadeguatezza mi (e vi) salverà, spero, dal ricco apparato critico che un’opera formalmente accademica (che non sarei in alcun modo capace di scrivere) richiederebbe; e renderà inutili ulteriori introduzioni, più rituali che necessarie, che altri contesti renderebbero ineluttabili. Sappiate solo che non utilizzo il termine fantasy in modo estensivo e che se quella, come altre parole, sono qui ripetute più volte, è perché non possiedo neppure quel minimo di competenza che mi consentirebbe di utilizzare in modo acconcio dei sinonimi.

Nonostante tutto ciò vi auguro, come sempre, buona lettura.

1. In due post che mi piacciono più di quanto sarebbe lecito, ho creduto di individuare nella “confusione tra il piano della realtà e quello del racconto” la caratteristica fondamentale del genere fantastico. Solamente dopo aver scritto (due volte!) tali parole, ho scoperto che esse riprendevano in modo quasi mimetico quanto scrisse Cvetan Todorov nel 1970, parlando del fantastico come di quel

tempo dell’esitazione […] comune al lettore e al personaggio, i quali debbono decidere se ciò che percepiscono fa parte o meno del campo della “realtà” quale essa esiste per l’opinione comune

Questo è il motivo per cui non considero il fantasy una delle possibili incarnazioni della letteratura fantastica: quest’ultima, infatti, si propone di mostrarci che l’imponderabile, il meraviglioso, il sublime sono compenetrati nella nostra realtà; il fantasy, invece, pone quelle categorie in un mondo ulteriore, alternativo, che crea ex novo e che, nella migliore delle ipotesi, decide di situare “proprio accanto al nostro” (ho usato queste parole nella mia recensione “complessiva” della saga di Harry Potter, forse l’unico fantasy che abbia apprezzato).

2. Si può dunque dire che i due generi sono non solo separati, ma contrapposti. Entrambi sovvertono le regole del nostro mondo: ma il fantastico lo fa alterandole o, nei suoi momenti migliori, portandole alle loro estreme conseguenze (penso a certi racconti di Lovecraft, ad esempio), mentre il fantasy ne inventa di nuove. In questo senso, io ritengo che il fantastico possa essere definito un genere di ricerca ed il fantasy, al contrario, un genere religioso (per altro il fantastico prosperò in tempi che professavano una fiducia perfino eccessiva nella Ragione, mentre il fantasy è il genere trionfante dei nostri tempi, profondamente irrazionali); in questo senso ritengo che il fantastico, a prescindere dalle intenzioni dell’autore, sia sempre un’arte marziale, che mette in discussione l’esistente, ed il fantasy sempre un’arte di propaganda, per sua natura conservatrice e consolante.

3. Ed infatti si ha talvolta l’impressione, quando ci si approccia ad un’opera fantasy, che il suo autore voglia dire: viviamo in un mondo irredimibile, sporco, caotico, insensato; rifuggiati pure in questo, forse artificiale, ma bello, ordinato, comprensibile, riposante. Ironicamente, contro una tale deriva escapologica del genere si era espresso, già oltre sessant’anni fa, il più noto tra gli scrittori che lo praticarono: J.R.R. Tolkien. Il quale, pur sottolineando che nulla nei suoi lavori si riferiva in modo diretto al mondo suo contemporaneo, rifiutava di credere che esse fossero buone soltanto, per usare un’espressione assai cara a certa retorica nostra contemporanea, “a staccare il cervello”.

Il tradimento degli insegnamenti di Tolkien pare, tuttavia, essere una costante, nei suoi epigoni: all’attenzione riservata alla costruzione di culture e lingue originali, si contrappone il “modello” George Martin, che fa parlare tutti i personaggi de Le cronache del ghiaccio e del fuoco in una “lingua franca” che è il piano inglese americano (tanto che uno di loro, Hodor, deriva assurdamente il suo nome da un’espressione in lingua inglese); la preoccupazione che spinse il professore di Oxford alla scrivania, quella di fornire l’Inghilterra di un’epica che le mancava, è stata fagocitata dai bisogni di un’industria che Tolkien stigmatizzò; gli eroi piccoli ed imperfetti del mondo tolkeniano (Sam Gamgee ne è il paradigma) hanno prodotto stucchevoli antieroi pieni di difetti, ma comunque rappresentanti di un’aristocrazia che pare essere l’unica classe sociale degna di essere raccontata.

4. E mentre gli autori tengono una tale linea di condotta, paradossalmente, i fruitori del genere si muovono nel senso opposto, santificando Tolkien. Uso il termine in senso proprio: l’adorazione per le opere del Professore pare essere un vero e proprio articolo di fede della “chiesa del fantasy”, e credo di non aver mai incontrato un fan del genere che riuscisse a confessare, con tranquillità e senza essere assalito dai sensi di colpa, di non apprezzare le sue opere; nessuno pare essere in grado di rifiutare quell’assioma (Tolkien è il fantasy, il fantasy è Tolkien) che rende lecita un’affermazione altrimenti assai imprudente: la morte del genere fantasy è da imputare al suo più grande interprete.

5. Si accennava, più su, all’intendimento del Tolkien autore, che era la creazione di un’epica moderna; un simile risultato, si comprenderà, poteva essere raggiunto unicamente riuscendo a produrre delle opere e “letterarie”, e “popolari”. Tolkien ne fu capace, e questa fu una rovina.

L’ottima resa linguistica dei suoi lavori, infatti, ha reso futile qualunque discussione sulla letterarietà del genere; ciò, in qualche modo, ha “autorizzato” gli altri che vi si sono misurati ad ignorare la “questione dello stile”, condannando il fantasy ad una progressiva semplificazione formale (vedi il già citato Martin e la sua sintassi elementare). D’altro canto, il successo incontrato soprattutto dal Signore degli Anelli ha convinto i più che esso fosse non un fantasy, ma il fantasy, ed ha fissato degli asfittici paletti entro cui muoversi, per non correre il rischio di essere scacciati dal “recinto” (assai remunerativo) della narrativa fantasy.

In definitiva, dunque, la bravura di Tolkien e la statura del suo lavoro hanno condotto ad un genere che ripercorre sempre le stesse situazioni, utilizzando una lingua sempre più povera. Eterogenesi dei fini al suo massimo grado.

6. Tutto ciò, ovviamente, non sarebbe stato possibile senza quella che in precedenza ho chiamato santificazione di Tolkien, che si inserisce in una tendenza che non interessa unicamente la narrativa fantasy ma qualunque narrativa che abbia delle velleità, anche minime, di massificazione, qualunque sia il medium attraverso il quale decide di esprimersi: sto parlando della spasmodica ricerca del canone da parte del pubblico.

Mi spiego: credo che il successo cinematografico che ha recentemente premiato nuovi episodi di saghe terminate ormai da anni (Harry Potter, Star Wars), nonché quello del Marvel Cinematic Universe, non sarebbe stato possibile se chi ha amato quelle storie non ne fosse diventato dipendente al punto da voler gettare luce su qualunque elemento della sua trama; da voler sapere quale dei molti possibili futuri (e quale dei molti possibili passati) erano da considerare canonici.

Ciò, credo, toglie molto alla fruizione dell’opera complessiva e dimostra, temo, che molti dei fan di Harry Potter (per esempio) non sono ancora abbastanza maturi da comprendere che il duello tra Silente e Grindelwald li ha affascinati proprio perché avviene fuori scena, proprio perché non ne conosciamo tutti i particolari, le sfaccettature, i segreti; non sono ancora abbastanza maturi da comprendere che la letteratura è anche (soprattutto) ciò che non si racconta, e che se si pretende una risposta a qualunque domanda, non è ad un testo letterario (il cui compito, teste Umberto Eco, non è fugare i dubbi ma semmai alimentarli), ma ad un testo religioso che bisogna rivolgersi.

O forse quei fan hanno compreso tutto ciò; e quella tendenza dimostra solo che aveva ragione un assai intelligente e capace autore di letteratura fantastica, Gilbert Chesterton, quando scriveva:

quando gli uomini smettono di credere in Dio, non è che smettono di credere. Iniziano a credere a tutto.

9 thoughts on “Alcuni appunti sul fantasy

  1. Grazie della dedica, prima di tutto ^_^
    E ora che ci penso dovrei trovare un modo per ricambiare, perché il tema è interessante, anche se non rientra nelle mie corde. Io sono una giovane eretica (perché”giovane”? Perché certe questioni serie le ho sempre trovate molto “da adulti” e di solito scappo quando le vedo arrivare) che divide i libri in “quelli che mi piacciono e quelli che non” e non sta troppo dietro ai messaggi e cose del genere. Gli anni sono passati, ma per me il Signore degli Anelli è sempre un incantesimo che mi avvolge come quando avevo undici anni, anche se col tempo ho imparato a capire che si parlava soprattutto del libero arbitrio e… sì, dei buoni sentimenti. Ogni volta che rileggo quel libro ci trovo dentro qualcosa in più, e tanto ci ho trovato che alla fine di quel che voleva o non voleva metterci Tolkien me ne sono sempre abbastanza fregata: è il MIO libro, tesssssoro mio!
    Ma è verissimo quel che dici: scrivendolo Tolkien ha strozzato in culla il cosiddetto genere fantasy. Lui non voleva, credo, fondare alcun nuovo genere letterario, voleva scrivere un romanzo come pareva a lui, in barba alla letteratura contemporanea e a tutte le regole editoriali dell’epoca, ma ha immobilizzato per decenni un genere e creato una serie di divieti e sottodivieti… quando sono usciti i film dell’Hobbit per esempio ci han sfinito su come un nano DOVEVA essere, anche se i nostri nani tolkieniani sono in gran parte creati sulla base dei giochi di ruolo alla luce di come la cultura di un certo ambiente ha deciso che dovevano essere i nani…
    E mi viene in mente un altro caso: il Canzoniere di Petrarca, dove Petrarca si scrisse una raccolta di poesie a modo suo, ma che immobilizzò la poesia lirica italiana fino a quasi tutto il 700, con risultati di un imbalsamato spaventoso. In realtà esiste una bella letteratura fantasy che non ha troppo a spartire con Tolkien (oltre a Harry Potter ci metterei anche la Bussola d’oro e il Mondo Disco di Pratchett) ma si tratta sempre di autori con unanotevole personalità letteraria, e certamente posteriori agli anni ’80 come minimo. Con pochissimi elfi, detto per inciso.

  2. Avevo capito che eri tra quelli che Tolkien proprio non lo reggeva 🙂
    A proposito: questo post ha figliato:
    http://ildiariodimurasaki.blogspot.com/2018/08/what-are-we-tolkien-about.html
    Considerazioni in libertà da un letto d’ospedale. È ancora in forma approssimativa perché pubblicare dal tablet un post è impresa piuttosto complicata, e metterci un immagine o un link è decisamente complicato. Ma insomma, ilmsucco dovrebbe essere questo.

  3. Molto condivisibile, non posso che segnalare anche a te il bel saggio Archaeologies of the Future di Jameson, che, partendo in realtà da considerazioni critiche sulla science fiction, va a toccare anche alcuni nodi cruciali sullo statuto del fantasy.
    A margine, Harry Potter ti piace perché non è un fantasy (solo fuori dal mondo anglosassone viene, occasionalmente, considerato tale). È una school-story con tocchi fantasy, che però alla fine non sono prevalenti, nonostante il settimo volume. Oppure, come scrissi in un mio saggio, con un po’ di paradosso: “non è un fantasy, è una storia di scuola di un ragazzo che ama leggere i fantasy”.

    • Provvederò a recuperarlo, grazie della segnalazione e del commento:-).
      Che poi, io sono uno che rifiuta le etichette artistiche, che sono solo una necessità commerciale. Ma sta di fatto che c’è gente che a ste cose ci fa caso.

      • Beh, non esattamente commerciale, eh. La teoria dei generi nasce con Aristotele ed è un ramo non minore dell’estetica – e gli autori ci fanno caso, per usare le tue parole, nel momento stesso in cui iniziano a porsi in un’ottica mimetica.

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