Un buon giallo

Alle ore 10.21 del giorno 3 marzo, il professor Delli Castaldi si presentò al posto di polizia della piccola città costiera di Civitafranca: rifiutò l’aiuto di tutti i sottoposti che gli si fecero incontro ed insistette per parlare personalmente col commissario, al quale, disse, avrebbe potuto rivelare informazioni importantissime per interrompere la catena di eventi delittuosi che stavano funestando il paese (utilizzò, a un dipresso, queste precise parole).

Il commissario lo ricevette dopo avergli fatto conoscere la scomodità delle sedie in plastica della sua anticamera per quasi un’ora, sperando che ciò servisse a fiaccare la sua testardaggine, che d’altronde era leggendaria; ma quando, alle 11.14, aprì la porta del suo studio per andare a bersi un caffè alla macchinetta automatica in fondo al corridoio, trovò l’anziano professore, ormai in pensione, compostamente seduto nel preciso luogo in cui uno dei suoi agenti l’aveva fatto accomodare (si fa per dire), e non poté far altro che invitarlo ad entrare e chiedergli cosa lo portava da lui.

Alle ore 9.42 di quella stessa mattina, il Delli Castaldi aveva posteggiato la sua automobile, una Toyota Yaris di colore blu scuro che il figlio aveva recentemente dismesso, presso il parcheggio gratuito (perché non custodito né videosorvegliato) di via Carlo Cattaneo, dove non mancavano mai gli stalli liberi vista la scomoda posizione in cui si trovava; prima di scendere dal veicolo, aveva compiuto tutta una serie di rituali (e questa sua abitudine alle liturgie ossessive era il motivo per cui era l’incubo di ogni studente, quando ancora insegnava) volte a conferirgli la certezza di aver chiuso ogni serratura e portato ogni interruttore sulla posizione di spento (“Sa, commissario, queste macchine giapponesi hanno sempre un pulsante o una rotellina nascosta…”); nonostante ciò, mentre abbandonava il parcheggio per immettersi come pedone nella circolazione di via Cattaneo, lo aveva colto il dubbio, che chiunque condivida con lui la visione ritualistica della vita comprenderà alla perfezione, di non aver smorzato i fanali anteriori, cosa che avrebbe potuto avere delle sgradevoli conseguenze: era dunque tornato sui suoi passi, senza eccessiva precipitazione. Erano passati non più di cinque minuti da quando aveva arrestato il suo automezzo.

I fanali, ovviamente, erano spenti, come sempre in questi casi; a colpire l’attenzione del professore, tuttavia, era stato il fatto (di cui si era accorto quando era penetrato nell’abitacolo per un controllo ulteriore) che la serratura lato guidatore era stata aperta durante la sua assenza: utilizzò proprio queste parole, era stata aperta, ed anzi sottolineò la forma passiva in cui aveva deciso di coniugare il verbo col tono della voce, e con un successivo silenzio, assai eloquente; si mise dunque in attesa che il commissario comprendesse le implicazioni di quanto gli aveva raccontato e che si lanciasse fuori dal suo ufficio per mettersi alla caccia di colui che si era reso colpevole di quel “tentato furto”. Il commissario tuttavia non comprese, o meglio comprese che il Delli Castaldi doveva annoiarsi molto, e fu costretto a far ricorso a tutto il suo autocontrollo per non cacciarlo in malo modo, o meglio ancora per arrestarlo con una scusa qualsiasi, visto che era venuto a rompere i coglioni in un momento in cui di furti d’auto veri, in città, ce n’erano quanti se ne voleva (ed il Delli Castaldi aveva dimostrato di esserne ben consapevole), e tutti si aspettavano che lui vi mettesse un freno. Congedò quindi, piuttosto frettolosamente, il professore, e nel momento stesso in cui lo rassicurava che si sarebbe occupato della faccenda l’aveva già dimenticata.

Né essa, purtroppo, gli tornò alla mente quando, due giorni dopo, a poca distanza da via Cattaneo, una pattuglia di carabinieri fermò il ragionier Antoniazzi, di anni cinquantanove, per un controllo di routine, e trovò, accuratamente nascosta nel suo bagagliaio, una quantità di cocaina che sarebbe bastata a soddisfare il fabbisogno di tutta Civitafranca per tre settimane almeno, e che mal si accordava con lo stile di vita dimesso che l’Antoniazzi, in maniera sotto ogni aspetto genuina, conduceva; fu solo dopo gli eventi drammatici di piazza Albert Schweitzer (ancora maggiormente conosciuta come piazzale dell’ospedale, ignorando la maggioranza dei cittadini chi Schweitzer fosse e cosa avesse fatto per meritarsi una piazza a lui intitolata) che gli apparve qual era il significato da attribuire alla disavventura (reale, comprese a quel punto) del professor Delli Castaldi.

Il 9 marzo, alle ore 9.31, il signor Gianese aveva parcheggiato la sua auto piuttosto lontano dall’ingresso principale (nonché unico) dell’ospedale di comunità dove era atteso per una visita cardiologica; era in ritardo, e quindi non si era accorto che, non appena se l’era lasciata alle spalle, alla sua Fiat Punto grigia (ormai prossima alla sostituzione) si era avvicinato il piccolo criminale Antonio Girardi; i movimenti del Girardi, tuttavia, erano apparsi fin troppo chiari ad una guardia giurata che stava lasciando l’ospedale dopo un turno di notte noioso e poco soddisfacente, il cui nome è rimasto sconosciuto per ragioni di privacy: non appena aveva visto Girardi armeggiare attorno alla serratura della porta con l’inconfondibile gestualità di chi sta tentando di scassinarla, gli aveva urlato di fermarsi; nel momento in cui questi aveva tentato la fuga, aveva tirato fuori la sua pistola (regolarmente denunciata ed in suo possesso in ragione della professione da lui svolta) ed aveva fatto fuoco, “con l’intenzione ovvia di intimorirlo”; il proiettile, sparato forse ad un’altezza eccessivamente bassa, aveva mandato in frantumi il finestrino di una BMW di proprietà di un endocrinologo, il cui allarme aveva iniziato a suonare richiamando l’attenzione di alcuni passanti, che ore dopo avevano testimoniato di aver visto Girardi asserragliarsi dietro un cassonetto dell’immondizia, tirare fuori dalla tasca del giaccone una Beretta di un modello antiquato ed iniziare a far fuoco a sua volta; il commissario, con due volanti ed un totale di sei agenti, era arrivato sette minuti dopo l’inizio del conflitto a fuoco, che era ancora in pieno svolgimento quando aveva preso un megafono che si era rivelato del tutto inutile, e che aveva quindi abbandonato per por mano, anch’egli, all’arma d’ordinanza.

Non aveva difficoltà ad ammetterlo: probabilmente era stato lui a colpire Girardi con la pallottola che lo aveva ucciso; non gli era mai capitato prima, durante la sua carriera, e di sicuro sperava non gli capitasse mai più, ma credeva che le circostanze lo scusassero per aver fatto ricorso a quel mezzo estremo, per altro non del tutto rispondente alla sua volontà, che sarebbe stata piuttosto quella di arrivare a Girardi vivo e di capire perché stava rischiando egli stesso di ammazzare qualcuno per sottrarsi ad un arresto (l’ennesimo) per furto d’auto (o, per usare la terminologia del Delli Castaldi, per tentato furto d’auto). La motivazione fu chiara quando, un’ora e mezza dopo, all’obitorio, il corpo ormai cadavere di Girardi venne spogliato e, facendo l’inventario del suo vestiario, si trovò che lo zaino Invicta, vecchio di almeno trent’anni, che portava sulle spalle conteneva una quantità di cocaina pari, più o meno, a quella trovata in possesso del ragionier Antoniazzi appena cinque giorni prima: quel furto d’auto, dunque, o per meglio dire quei furti d’auto, non erano dei semplici furti d’auto; erano semmai il mezzo con cui la criminalità, anzi, una criminalità organizzata ancora tutta da definire ma che, gli doleva dirlo, aveva ormai raggiunto anche Civitafranca, si serviva per rifornire le piazze di spaccio di tutta la provincia. La cocaina, raffinata ed acquistata “all’ingrosso”, raggiungeva la città attraverso vie ancora da chiarire; veniva quindi affidata a dei delinquenti di mezza tacca come il Girardi, che provvedevano a nasconderla all’interno di automobili di insospettabili cittadini, le quali venivano poi rubate in un secondo momento. Quelle stesse autovetture venivano poi verosimilmente utilizzate per far giungere le singole dosi ai piccoli spacciatori e, quindi, smontate ed i pezzi rivenduti sotto banco, andando così a realizzare un doppio guadagno per la malavita. Ulteriori indagini…

Fu qui che il commissario smise di parlare: il copione della conferenza stampa, infatti, prevedeva a questo punto che a prendere la parola fosse il sostituto procuratore. La platea di giornalisti, gli parve, era soddisfatta della cronologia degli eventi che aveva appena finito di ricostruire e che è, al netto di alcune licenze, quella che ho riportato poc’anzi. Sorrise: tutti sembravano non aver alcun motivo di dubitare che, prima della tragedia di piazza Schweitzer, lui e Girardi non si fossero mai conosciuti: almeno, non ad una profondità tale per cui lui avrebbe potuto odiarlo come in realtà lo odiava.

A volte, un buon giallo è un’ottima versione ufficiale.

12 thoughts on “Un buon giallo

  1. da buon autore di giallo, hai lasciato soltanto sottinteso il colpo di scena inevitabile che a questo punto si verifica…: al lettore di costruirselo come meglio gli piace….

      • nel finale del racconto ho letto tutte le premesse di un colpo di scena che smaschera il commissario, ma non si capisce bene da dove possa venire, se dal Procuratore Generale, da un giornalista o da qualche altro protagonista imprevisto della scena successiva lasciata in sospeso: a me verrebbe in mente la moglie del Girardi, per esempio, in una scena fortemente drammatica.
        però giustamente, che sia il lettore a crearsi il suo frame fatto in casa, a questo punto: Opera Aperta, alla Umberto Eco…
        sbaglio?

        • Ah be’, io sono molto echiano nella mia “ideologia narrativa” (anche se Opera Aperta non l’ho letto): quindi sì, per me è il lettore che deve dare un’interpretazione dell’opera. Ad esempio, io non avevo pensato affatto che qualcuno potesse smascherare il commissario.

          • non l’hai pensato razionalmente, ma tutto nel finale prepara questo scenario, con l’uso di precise tecniche narrative finalizzate a questo scopo…
            “Il copione prevedeva a questo punto…”; e il lettore si aspetta che il copione sia spezzato.
            “La platea di giornalisti, gli parve, era soddisfatta”, e logicamente il lettore si aspetta che questa sia una falsa impressione e che in realtà la platea non sia per niente soddisfatta…
            “Tutti sembravano non aver alcun motivo di dubitare”: ma chiaramente le cose non stavano così oppure stavano per cambiare.
            l’insistenza sull’apparenza della normalità non può che preparare una rottura della normalità.

            lo stesso dicasi del fatto che il narratore, che ne sa più del lettore e di alcuni personaggi, rivela che il commissario conosce Giraldi e lo odiava: non avrebbe alcun motivo per dirglielo se non per suggerire che, visto che il commissario lo aveva ucciso in modo apparentemente casuale, le cose non stavano in realtà così.

            nessuno si aspetta dal narratore che la morale della sua storia sia che le cose SEMBRAVANO normali ed effettivamente, caro lettore, devo confessarti che lo erano. ciò che giustifica il narrare una storia non è la sua eccezionalità? che senso ha raccontare le cose assolutamente normali?

  2. invece un giallo in cui il colpevole la fa franca è molto originale, una vera svolta nel genere.
    posso dire, a difesa della mia personale versione di lettore del tuo giallo, che però neppure nella mia sceneggiatura è previsto che il colpevole non la faccia franca: vero che verrà accusato dalla vedova con diversi elementi di fatto che potre bbero far pensare addirittura ad una premeditazione, ma il commissario (parente stretto dell’indimenticabile Un commissario al di sopra di ogni sospetto, film di Petri) potrebbe riuscire lo stesso a farla franca. e il lettore resterà avvinghiato alla trama proprio in questo: che quanto più le prove si accumulano contro di lui, tanto più il commissario tenterà di farla franca, magari assoldando un buon avvocato come Coppi o la Bongiorno, e alla fine probabilmente ce la farà anche: cosa dalla quale il lettore potrebbe ricavare illuminanti lezioni di vita, ahha.

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