Citarsi addosso

(aggiornato dopo la pubblicazione iniziale)

Scriveva Umberto Eco (purtroppo, non riesco a ricordare precisamente dove) che esiste una tipologia di citazione che potremmo chiamare “citazione inconscia” (la definizione è mia): è quella che si realizza quando un autore ne cita un altro senza sapere di star citando. Eco attribuiva questa forma di citazione ad una comune temperie culturale, ad un’idea che è “nell’aria” e viene colta e resa esplicita, con un ridotto scarto temporale, da due (o più) persone diverse.

Un sorprendente e curioso caso di “citazione inconscia” mi ha visto protagonista la scorsa settimana; devo tuttavia riconoscere che questo evento e quelli di cui parlava il grande intellettuale alessandrino mi sembrano profondamente diversi; quanto meno, mi sembrano profondamente diverse, pur non avendole ancora comprese appieno, le cause che li hanno originati e, soprattutto, la magnitudine con cui si sono manifestati.

Eco, infatti, definiva quella fattispecie in un articolo che parlava, appunto, della citazione, ossia (fonte Wikipedia) della

ripetizione di un’espressione che viene riportata in un testo da una persona diversa dall’autore.

L’utilizzo stesso del termine espressione fa capire come una citazione debba, evidentemente, essere qualcosa di breve; inoltre, l’uso stabilisce che la fedeltà all’originale della citazione può anche non essere perfetta. La “citazione inconscia” di cui ho intenzione di mettervi a parte, invece, riguarda migliaia e migliaia di parole, tratte da sette testi diversi, per quanto collegati, e per di più trascritte, del tutto involontariamente (posso giurarlo), in maniera letterale.

Circa un mese fa, come forse ricorderete, ho pubblicato su queste pagine A Londra col dottore. Era una specie di pastiche letterario, un divertissement che mescolava il racconto giallo con la guida turistica: in esso, infatti, facevo muovere alcuni “vecchi amici”, intenzionati a risolvere un increscioso mistero, tra le strade della capitale inglese, e li facevo finire, nel corso del loro peregrinare, in alcuni “punti d’interesse” che avevano colpito la mia curiosità, e che pure a me sarebbe piaciuto toccare (con alcuni, la risoluzione ha avuto successo) durante il viaggio in terra d’Albione che si stava svolgendo negli stessi giorni della sua uscita. Onestamente, non credo che A Londra col dottore, che pure è stato assai piacevole scrivere, abbia un gran valore; esso è dunque finito nell’oblio poco dopo il mio ritorno in Italia (che per altro è stato piuttosto traumatico), e lì sarebbe rimasto in eterno se, lunedì scorso, un evento che definirei quasi paranormale non fosse giunto a stimolare la mia memoria.

In quella giornata, infatti, su Londonerd, delizioso blog interamente dedicato alla città di Londra, che seguo da tempo e che ho consultato come fonte per le informazioni riportate in A Londra col dottore, è comparsa la prima puntata di quel racconto; al netto delle divergenze grafiche tra questo sito e quello, e del fatto che le fosse stato imposto (cosa su cui io avevo deciso di soprassedere) un titolo, Reale quanto il fantasma dei Canterville,essa era identica, parola per parola, a quella da me pubblicata lo scorso 10 maggio. Al ritmo di uno per mattina, nei giorni successivi, Londonerd ha fatto uscire anche le puntate successive della storia, fino a giungere, oggi, alla sua conclusione; tutte erano la copia carbone di quelle che voi avete letto, per così dire, “in anteprima”, trenta e più giorni fa. Ci ho messo del tempo, ad accettare che le mie parole stessero rivivendo lontano dal luogo in cui, credevo, sarebbero invecchiate e morte; superata questa particolare forma di lutto, o forse ancora nella fase di negoziazione, un interrogativo ha iniziato a tormentarmi.

Com’era potuto accadere? Dovevo scoprirlo.

La prima ipotesi da considerare, ovviamente, era quella del plagio: l’ho esclusa praticamente da subito. Chi scrive Londonerd mi sembra persona non solo onesta fin quasi al limite dell’ingenuità, ma anche dotata di un certo buon gusto; e questo avrebbe dovuto portarlo, qualora avesse voluto macchiarsi dell’inemendabile onta del plagio, a rivolgersi a qualcuno di più dotato, e degno dell’omaggio, rispetto al sottoscritto. Inoltre, la sua buonafede è evidente, visto che tutte le puntate di A Londra col dottore pubblicate su Londonerd riportano me come autore; questo, lungi dal far luce sul mistero, lo infittisce ulteriormente: in un articolo introduttivo, infatti, veniva spiegato che quella serie di post era la traduzione di un racconto uscito a puntate su sette numeri consecutivi del London Evening Times, scovati in un piccolo negozietto di Camden; ennesima circostanza inspiegabile, tali numeri del London Evening Times risalgono a quello stesso 1928 in cui io avevo deciso di ambientare le avventure dei miei protagonisti.

Alcuni di voi, mi rendo conto, arrivati a questo punto potrebbero farmi notare che esiste una parola magica in grado di spiegare perfettamente tutti i punti oscuri di questa faccenda: coincidenza; tale ricostruzione, tuttavia, sarebbe ad un tempo più sorprendente e più banale di ciascuna delle altre che è possibile immaginare. I sette testi che compongono A Londra col dottore assommano, nel complesso, a circa seimila parole totali; ignoro quante parole esistano nella lingua italiana o in quella inglese: fonti del Web mi dicono tra le centocinquantamila e le trecentomila; prendiamo centomila, come ipotesi più prudente. Ciò significa che, combinando casualmente tutte le parole disponibili in un vocabolario (sia esso di inglese o di italiano) le possibilità di riscrivere, parola per parola, A Londra col dottore (che per altro contiene quasi un intero capitolo che non è né in inglese, né in italiano, né in nessuna altra lingua conosciuta) sono una su centomila elevato alla seimillesima potenza: un numero talmente piccolo che, quando ho tentato di elaborarlo con una calcolatrice scientifica, quest’ultima mi ha restituito un messaggio di errore. D’altro canto, fin dai tempi in cui Max Planck e Albert Einstein fondarono la meccanica quantistica, sappiamo che, dato un tempo sufficientemente lungo, qualsiasi evento possa realizzarsi, effettivamente, si realizza: e dunque, la comparsa, a quasi cent’anni di distanza, su due mezzi di comunicazione così diversi, di due testi tra loro identici, il cui autore porta lo stesso nome (non ho infatti detto che anche nel London Evening Times A Londra col dottore è firmato da un tal Gaber Ricci), non dovrebbe essere motivo di sorpresa, ma solo la conferma che i modelli che stiamo usando per spiegarci la realtà sono, effettivamente, piuttosto accurati; ossia (ed ecco la banalità) che la realtà sta andando esattamente nel modo in cui dovrebbe andare, e grazie tante.

La citazione di Einstein, fortunatamente, permette di elaborare supposizioni meno tetre di quest’ultima: è stato infatti proprio il grande fisico di Ulm il primo a mettere in discussione il modo in cui, intuitivamente, pensiamo al tempo e, anzi, a gettare le basi per quelle teorie fisiche, oggi prevalenti, che vogliono il tempo non esistere; d’altronde, già negli anni Trenta, scrivendo ad un suo amico che aveva perso non ricordo più quale persona cara, Einstein notava come

le più recenti scoperte della fisica ci dicono che il tempo è solo un’illusione.

Mi piace immaginare che, quando vergò quelle parole, Einstein si trovasse a Londra, città in cui effettivamente risiedette, per alcuni mesi, nel 1933, quando sfuggiva alle persecuzioni che in Germania lo avrebbero colpito e in quanto ebreo, e in quanto antinazista. In quell’occasione, tenne una conferenza, assai partecipata, alla Royal Albert Hall; in quell’occasione risiedette in Lord North Street, nella City of Westminister: e questa è forse la circostanza, cosa dico, l’indizio che riveste più importanza per noi.

Lord North Street, che porta questo nome solo dal 1936, quando un amico di Winston Churchill, il quale evidentemente percepiva la decadenza dell’Impero, la fece così rinominare perché gli sembrava che fosse più maestoso, e che fino a quel momento si era chiamata, semplicemente, North Street, è poco più di un vicolo che corre tra Great Peter Street e Smith Square, in quello che Wikipedia definisce il cuore della politica inglese; in effetti, si trova a meno di mezzo miglio dal palazzo del parlamento e, in definitiva, è un luogo rappresentativo della buona società di Londra. Ed il punto è proprio questo: cosa diavolo ci faceva, un outsider come Einstein, in un posto del genere? Potrebbe darsi che l’uomo che ha scritto (in Pensieri di un uomo curioso) bisogna spartire il tempo tra la politica e le equazioni. Ma, per me, le nostre equazioni sono molto più importanti si sia rassegnato a vivere lì, perché in quel luogo si trovava un qualche motivo “professionale” di interesse, un punto in cui lo spaziotempo presentava quelle caratteristiche curiose che le sue adorate equazioni avevano previsto, e che lui voleva verificare di persona? Un punto in cui i concetti di presente, passato e futuro non esistevano? La supposizione, mi rendo conto, può sembrare temeraria… finché non si considera, quanto meno, che Londra è stata la città che ha fatto da sfondo a eventi come questo e che, al numero 42 di North Street, aveva sede, fino alla sua chiusura avvenuta nel 1947, il London Evening Times.

Escludo di aver mai letto, nella mia vita (o, almeno, prima di scrivere A Londra col dottore) il quotidiano in questione; non posso tuttavia escludere che qualcuno dei suoi redattori, o dei suoi collaboratori, abbia letto il mio blog: Einstein, passeggiando per la triste stradina in cui era andato ad abitare per scappare da un criminale coi baffi a spazzola, potrebbe aver trovato la prova che, in alcuni luoghi dell’universo, il tempo andava fuor di sesto e collassava su se stesso; uno scrittore in cerca di ispirazione potrebbe aver sfruttato quel luogo, su cui casualmente si trovava la sua scrivania, per intravedere un tempo in cui i testi si sarebbero fruiti a schermo, e non su carta, e, lettone uno, potrebbe aver deciso di riportarlo nei tempi suoi, firmandosi, come in una sorta di confessione, con uno pseudonimo, il mio, che sarebbe stato inventato solo di lì ad un secolo…

L’unica prova che posso fornire per questa ricostruzione, ovviamente, è il fascino che essa mi provoca; chi necessitasse di verifiche più empiriche può recarsi di persona a Lord North Street: ma devo mettervi in guardia. L’anonimo autore del London Evening Times, nel 1928, per aver avuto l’ardire di credere ad un tempo non lineare, ovvero di non credere più al tempo, subì una dura punizione: fu infatti costretto a leggere un racconto scritto da me; a voi, chissà, potrebbe andare ancora peggio.

AGGIORNAMENTO DI 16 ORE DOPO:

Mi vedo costretto, viste le prime reazioni a questo testo, a scusarmi e con voi, e con l’autore di Londonerd: a dispetto del fatto che io avessi chiarito che non bisognava prendere in considerazione l’ipotesi plagio, e che per me risultava evidente che questo post fosse da intendere come “ultimo atto” di un gioco intercorso tra me e chi scrive quel meraviglioso sito, alcuni lettori (che ringrazio per avermi fatto comprendere l’errore) hanno comunque sospettato che A Londra col dottore fosse stato ripubblicato senza la mia volontà. Non è stato così: tra me e chi scrive Londonerd sono intercorsi lunghi scambi “epistolari”, durante i quali mi sono detto ben felice che una mia opera comparisse su quelle pagine (e come sarebbe potuto essere altrimenti). Sono stato informato ed ho accettato di buon grado questa ripubblicazione.

Mi rendo conto che dovrei considerare l’equivoco un complimento, una prova del fatto che la mia scrittura è stata (fin troppo) efficace. Ma non posso accettare che qualcuno subisca un’accusa dopo che non solo non ha fatto nulla di male, ma anzi ha voluto rendermi un omaggio.

Mi assumo ogni responsabilità di questo errore e prego tutti gli interessati di accettare le mie scuse.

18 thoughts on “Citarsi addosso

  1. in conclusione, semplici complimenti per la citazione su un sito tanto autorevole, o meglio per il plagio subito senza neppure essere citato. giusto per chiamare le cose col loro nome e, per non girarci troppo attorno, ricamandoci su, come fai tu, 🙂

    la prima cosa avrebbe fatto più piacere, indubbiamente, ma anche la seconda ha qualche elemento gratificante, in fondo, se si vuol vedere il bicchiere mezzo pieno piuttosto che quello mezzo vuoto…

        • In tutti i suoi post, l’autore indicato è Gaber Ricci, e nell’articolo introduttivo viene chiarito che quello è il nome dell’autore del racconto “originale”. Non esattamente quello che farebbe uno che vuole plagiare: anzi, escludo con certezza quest’ipotesi, e la mia spiegazione continua a sembrarmi più interessante. E credevo che anche a te sarebbe piaciuta :-).

          • ah, ora ho visto che sei citato, in alto in un angolino praticamente invisibile (per me, almeno).
            le modalità peraltro farebbero pensare a un piatto razionalista come me che tu sia un collaboratore di quel blog; non riesco a capire in quale altro modo il blog possa far figurare il tuo nome come autore, dato che a questo provvede la piattaforma in automatico, e non mi risulta che si sia modo di modificarlo.

            ma di sicuro ci sarà qualche via traversa che mi sfugge…

            sono però assolutamente d’accordo con te che va superata l’idea romantica della creazione artistica individuale del genio, che funziona solo raramente: a cominciare dal cinema, per proseguire con la musica e perfino con le pubblicazioni letterarie l’arte è sempre il risultato di un’azione di gruppo.

            con una sola eccezione, appunto: il blog, quando almeno non si fa di gruppo pure lui.

            ma se mi chiedi un giudizio sulla tua invenzione di qui sopra, in puro stile Harry Potter, la posso apprezzare come invenzione letteraria e divagazione ai confini tra fantasy e fisica quantistica, però – non avertene a male – la parola unica e finale che mi viene in mente è: reblog.

            • Ok, vedo che la confusione continua e mi vedo quindi costretto a chiarire che questa è l’ultima “puntata” di un gioco intercorso tra me e l’autore di quel blog, che mi ha ovviamente chiesto di poter ripubblicare i post e che, anzi, è stato così gentile da aggiungervi una cornice che ha reso il mio racconto assai più affascinante… pensavo che il “trucco” fosse palese, ma evidentemente mi sbagliavo. Mi dispiace avervi confuso ed aver dato adito ad illazioni del tutto ingiustificate nei confronti di Londonerd. Scusate, è stata solo colpa mia.

              • chiedo scusa io per non avere visto il tuo nome citato in un angolino della pagina dove è stato ripubblicato il tuo post, e avere dunque parlato di plagio, in via di ipotesi.

                ipotesi caduta subito, una volta che mi sono stati aperti gli occhi e ho visto la doverosa citazione.

                a quel punto tutto è diventato abbastanza chiaro (a parte la mia curiosità tecnica su come far comparire un estraneo come autore di un post in in blog condiviso: quando i miei blog erano condivisi, i collaboratori pubblicavano col loro nome in proprio, ma se ripubblicavo io qualcosa scritto da loro, l’autore risultavo io).

                piccolissima tempesta in un bicchier d’acqua ben più grande della tempesta, ma insomma hai voluto fuorviare noi lettori col tuo testo malizioso e puoi congratularti con te stesso, perché ci sei riuscito benissimo…

  2. Visto che c’è il tuo nome è stato fatto un banale copia e incolla firmandolo col tuo nome senza chiederti il permesso. Però è stata l’occasione per scrivere questo lungo post partendo da una citazione del grande Eco per poi produrre una specie di indagine su cosa è successo.

    • Considerando che quel che scrivo è copyleft, non ha fatto nulla di sbagliato, sapendo per altro che sono un suo lettore visto che già altrove avevo commentato dei suoi post. Aggiungo poi che senza Londonerd quel racconto non sarebbe mai esistito, visto che le informazioni che ho usato per scriverlo non le avrei avuto. Quel racconto è anche suo, ed anzi sono io che dovrei ringraziare lui (e anzi, colgo quest’occasione per farlo). Infine, l’ipotesi plagio, oltre che inverosimile, è anche, come scrivevo a bortocal, assai meno interessante di quella da me abbozzata qui :-).

    • Aggiungo: ti assicuro che se avessi anche il minimo sospetto di essere stato vittima di una furbata, non avrei raccontato la vicenda così. È lusinghiero che difendiate così le creazioni del vostro blogger di quartiere preferito, ma so quel che dico :-).

      P.S.: forse sarebbe ora di abbandonare l’idea romantica della creazione artistica (sempre che A Londra col dottore possa considerarsi arte) come frutto della mente del singolo artista illuminato dagli dei. La creazione è sempre un’opera collettiva, e, ripeto, quel racconto non sarebbe mai esistito senza Londonerd.

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