Game of Dem

Tra le infinite sottotrame in cui Il trono di spade si divide, una delle poche che abbia gradito è quella che riguarda Dorne, il più meridionale dei Sette Regni in cui si divide uno dei due continenti che sono l’ambientazione di questa saga fantasy. 

Qui regna Doran Martell, un principe talmente cauto e taciturno da far concorrenza a Filippo II di Spagna per il titolo di rey prudente. Tale suo atteggiamento non è scalfito nemmeno dai continui sgarri che vengono fatti alla sua famiglia dai Lannister, i quali hanno ordinato, anni prima, l’uccisione di sua sorella, Elia, ed hanno in seguito causato la morte di suo fratello, l’amatissimo (anche dal sottoscritto) Oberyn. Il suo paese ribolle per le offese, ed i suoi parenti più prossimi non sono da meno: le sue nipoti, figlie di Oberyn, minacciano di farsi giustizia da sole, e la sua stessa figlia, Arianne, ordisce un ardito complotto allo scopo di portare al potere una regina-fantoccio che possa essere da lei facilmente controllata. Doran scopre il complotto e lo manda all’aria; fa arrestare tutti i congiurati e rinchiude la figlia in una prigione dorata, in cima ad un’alta torre, dandole tutti i comfort che possano esistere in un convenzionale mondo medievale come quello del Trono di Spade (compresi vestiti che, riporto testualmente, coprono tutto senza nascondere nulla: perché Arianne non poteva che essere bellissima), ma vietando a chi la serve di parlarle. Infine, la raggiunge, e le rivela la verità: sta lavorando fin dalla morte di Elia ad un piano (ancora più arzigogolato di quello della stessa Arianne) per vendicarsi dei Lannister; e questo piano darà ai loro cuori quello che vogliono: vendetta, giustizia, fuoco e sangue.

Il capitolo dedicato al colloquio tra Arianne e Doran, con questa sua conclusione letteralmente bruciante, resta impresso; tanto è vero che, negli ultimi giorni, ho cullato il desiderio di utilizzarlo come base per una parodia. Una parodia che raccontasse e sbeffeggiasse il grande thriller psicologico che agita le fila dell’opposizione italiana, il grottesco redde rationem che si sta consumando all’interno del Partito Democratico, e che ha per protagonisti, da un lato, gli oppositori di Elly Schlein, che spingono perché si candidi alle elezioni europee e trascini tutta la baracca in quell’epocale figura di merda che è lecito attendersi, togliendosi finalmente dai piedi e lasciando i grandi ad occuparsi delle cose serie (cioè, della definitiva liquidazione del PD), e dall’altro gli (sparuti) sostenitori del segretario che invece stanno inondando qualunque mezzo di comunicazione disposto a concedere loro un minimo di spazio di argomentazioni atte a spiegare all’elettorato perché è giusto ed anzi auspicabile che il principale rappresentante del partito si sottragga al compito… be’, al compito di rappresentarlo

Ecco dunque che avevo immaginato di sovrapporre la figura della Schlein a quella di Arianne; ecco che, forse troppo generosamente, avevo progettato di rappresentarla come l’ideatrice di un fallimentare complotto teso a spazzar via l’intellighenzia di un partito non più al passo coi tempi; ecco che avevo fantasticato di rinchiuderla “nella più alta torre (d’avorio) del paese” (o, forse, nel suo ufficio, che è più o meno la stessa cosa), a riflettere nostalgicamente sul suo passato e a richiamare i tempi in cui veniva indicata come la più solida speranza per il futuro della sinistra italiana, o addirittura come “l’inafferrabile, duttile leader che detta la linea e vuole arrivare ad ogni costo” (ed a dimostrazione che la satira è ormai sterile, perché la realtà l’ha superata, questa definizione non è uscita dalla mia penna, ma è ripresa, quasi parola per parola, da un articolo dell’Huffington Post). Qui avrebbe dovuto raggiungerla un enigmatico personaggio, artefice di tutte le sue sfortune, con cui la Elly di Dorne si sarebbe confrontata ed anzi scontrata, salvo scoprire, in un colpo di scena finale che nulla avrebbe avuto da invidiare a quelli di George Martin, l’autore del Trono di spade, che quest’ultimo non rappresentava un avversario, ma un alleato: entrambi lavoravano per lo stesso fine, che avrebbe dato ai loro cuori ciò che desideravano. “E che cosa desiderano?” avrebbe chiesto il segretario, nella conclusione del mio racconto; “Giustizia, vendetta” avrebbe iniziato il misterioso convitato, ed insieme i due avrebbero concluso: “Renzi e sangue”. Poi uno di loro avrebbe dato un imbarazzato colpetto di tosse e si sarebbe corretto: “Fuoco. Fuoco e sangue”.

Me ne rendo conto: con ogni probabilità, un post siffatto non sarebbe stato il migliore mai comparso su questo blog; non è stata, tuttavia, questa considerazione a farmi desistere dal mio proposito di pubblicarlo. Se ho rinunciato, piuttosto, è stato perché mi sono reso conto che non sarei mai riuscito a calare la Schlein nel ruolo di un cospiratore; nemmeno di un cospiratore da operetta, come sarebbe stata nella mia parodia: a caratterizzare un cospiratore sono infatti gli scopi, ed in questo quasi anno trascorso alla guida del PD la Schlein non ha compiuto un singolo atto che consentisse di comprendere quale direzione intende dare a quello che, testardamente, continua a presentarsi come il maggior partito progressista d’Italia; e, anzi, il discorso potrebbe spingersi anche un poco più in là. 

All’inizio del 2023, discutevo con un amico, elettore storico e pervicace del Partito Democratico e che allora, credo, stava attraversando una crisi di fede, dello sfascio della sinistra istituzionale italiana; lui mi chiese che cosa ne pensassi di Elly Schlein, ed io, col pessimismo dell’intelligenza che mi è proprio, gli risposi che è impossibile giudicare un politico che abbia trascorso pressoché tutta la propria carriera nei banchi dell’opposizione (che la Schlein occupava anche nel suo partito), da cui è facile promettere scalate al cielo e futuri pregni di latte e miele: se, e quando, fosse diventata almeno segretario del PD, allora se ne sarebbe potuto riparlare. Lo ammetto: quando pronunciai quelle parole, non credevo che l’interessata sarebbe riuscita per davvero a dare “l’assalto al cielo” (sempre che la segreteria del Partito Democratico possa essere considerata il cielo, ovviamente); d’altronde, nell’improbabile ipotesi che quel giorno fosse arrivato, ritenevo che avrebbe fatto molto male: e qui, evidentemente, si è manifestato invece l’ottimismo della mia volontà, perché nella realtà le cose sono andate assai peggio. 

La Schlein, infatti, non ha fatto molto male: non ha fatto niente.

Supponiamo infatti che un osservatore alieno avesse iniziato a scrutare la politica italiana nell’ultimo anno, e fosse incapace di comprendere il linguaggio con cui si esprimono gli esseri umani: giudicando unicamente dalle azioni, che cosa penserebbe della Schlein, dei suoi valori, delle battaglie che ritiene necessario intraprendere? Riuscirebbe a capire che cosa è importante per lei? La risposta, evidentemente, è no; ed anzi, comprendere questi aspetti è risultato impossibile anche agli elettori italiani, visto che la Schlein ne ha affidato la diffusione unicamente a delle stanche e desolanti dichiarazioni rilasciate ai giornali d’area in ogni occasione in cui i fatti di bassa cronaca imponessero un suo intervento; quelle dichiarazioni, sperse nel mare magnum di allocuzioni e affermazioni di principio che ogni giorno, cosa dico, ogni minuto sgorgano dalla classe politica, sono passate del tutto inosservate, ma forse il punto non è questo: piuttosto, il punto è che l’impressione che ne è risultata è stata quella, sinistra, di un politico che tentasse di ripercorrere la strategia della sua nominale avversaria, Giorgia Meloni; la quale è assurta al titolo di “prima donna presidente del consiglio” grazie ad una martellante campagna mediatica che la vedeva intervenire su qualunque tema, dal diritto di famiglia agli sbarchi dei migranti fino all’indecidibile questione: panna nella carbonara, sì o no? 

Ma per la Meloni questa tattica ha funzionato perché lei viene presa sul serio non solo dai media “amici” (e fin qui), ma anche da quelli che, almeno “per contratto”, si contrappongono a lei ed a quello che rappresenta; e d’altronde non può essere che così, perché, se Repubblica e Il Riformista non dipingessero la Meloni come un moloch pronto a precipitare l’Italia in una cupa desolazione, degna di quella portata da Sauron nella Terra di Mezzo, allora alle opposizioni per cui quei quotidiani sono una sfavillante vetrina mancherebbe l’unico, vero argomento per contrastarla: votate per noi, che lei è molto peggio. Ma al Giornale e a Libero non interessa minimamente dare un qualche peso a quello che la Schlein dice di voler fare; certo, fingono che veramente possa consegnare l’Italia alla lobby delle organizzazioni non governative che smantelleranno le chiese per trasformarle in ostelli in cui ospitare le torme di islamici integralisti omosessuali liberali (scusate l’autocitazione) che si assiepano ai nostri confini, ma, ogni volta che qualcuno sbatte un microfono davanti alla faccia della Schlein e le permette di affermare che uno dei molti comportamenti “irrituali” di questo o quel membro della maggioranza “è vergognoso”, “è inaudito”, “è qualcosa per cui si deve venire a riferire in parlamento”, agitano lo spauracchio senza convinzione, irridendola e dando ad intendere che in fin dei conti non è altro che una ragazzina che sta giocando ad un gioco parecchio più grande di lei, che non ha idea di cosa significhi “la vita vera” e che comunque non andrà mai da nessuna parte; tranne, forse, sulla loro prima pagina, dove sarà protagonista di una di quelle belle vignette diffamatorie a cui quei raffinati fogli ci hanno abituati in tutti questi anni.

A furia di ripeterla, a furia di dare al Giornale e a Libero l’occasione di ripeterla, questa immagine alla Schlein si è attaccata addosso; l’immagine di una perdente arrogante che credeva di traghettare il Partito Democratico e probabilmente l’Italia verso il futuro, mentre invece non è capace neanche di inventarsi un modo suo di comunicare, e deve copiarlo dalla sua principale avversaria. Un’immagine preoccupante per svariate ragioni, ma per una in particolare.

Perché probabilmente è vera.

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