Se li hai sentiti, vuol dire che ci sono

Il legame duraturo ed intenso che mi lega a Bizzarro Bazar è noto ai miei lettori affezionati, i quali più di una volta, negli ultimi anni, mi hanno sentito cantare le lodi del suo autore, Ivan Cenzi: un vecchio filibustiere che ha battuto le rotte che conducono ai confini del mondo ed è tornato indietro per consegnarci le mappe delle macabre e lussureggianti isole del tesoro che ha scovato; uno psicopompo che ti porta sull’orlo dell’abisso che separa il normale dal perturbante e ti fa venir voglia di gettarti di sotto, per andarti a fare una nuotata nel maelstrom in compagnia di sirene e gemelli siamesi; un “agitatore culturale” (così l’ho definito altrove, e non me ne pento, anzi lo rivendico) che mi ha fatto comprendere la poesia del corpo e dello strano, e per il quale credo di aver esaurito le metafore, senza ancora riuscire a dare un’idea della potenza della sua opera di divulgazione ed anzi di educazione.

Ed ecco, a chi non mi ha mai sentito parlare di lui e voglia comprendere fino a che punto si spinge la mia stima, basti sapere questo: la mia “carriera” di blogger è ormai undecennale, ed ha portato alla “produzione” (al momento in cui scrivo queste parole) di 1099 post; di questi, solo uno era la ripubblicazione di un articolo “esterno”.

Quell’articolo l’aveva scritto Ivan.

Penso potrete benissimo capire, dunque, con quale delizia abbia appreso che tale “multiforme ingegno” (oltre ad aver ideato Bizzarro Bazar, Ivan Cenzi ha curato una straordinaria webserie, scritto diversi libri, insegnato nel master in death studies dell’università di Padova…) aveva deciso di “invadere” anche un campo che ha significato moltissimo, per la mia formazione: quello musicale. Tutto è iniziato durante la pandemia: in quel periodo, di cui per altro è stato uno dei pochissimi a parlare con cognizione di causa (e fin da subito, per di più), Ivan ha riscoperto la sua antica passione per la chitarra; al contrario di molti altri, però, non ha voluto “sfogare” questo rinnovato interesse nello stucchevole rito dell’Inno di Mameli alle sei del pomeriggio (e un poco me ne dispiaccio, perché se l’avesse fatto credo che non avremmo rimpianto il Jimi Hendrix di Woodstock): al contrario, ha spolverato “l’album dei ricordi”, ha tirato fuori alcuni “padri nobili” e si è ispirato a loro per comporre una manciata di canzoni che sono state poi orchestrate “a distanza” da un gruppo di vecchi amici (o forse dovrei dire complici?) sparsi in giro per l’Europa (uno di loro è l’autore di un altro mio blog-feticcio, Londonerd); le varie parti sono state assemblate, dallo stesso Ivan, con la medesima cura che il dottor Frankenstein avrebbe messo nella costruzione di una sua creatura, o che Von Hagens potrebbe utilizzare per realizzare un suo preparato, ma con più amore ed ironia (che poi, forse, sono la stessa cosa). Il risultato di questo spericolato e benvenuto esperimento è ora a nostra disposizione: si intitola Graveyard Bound (ovviamente), e potete acquistarlo qui. Io l’ho fatto il giorno della sua uscita, e sono qui per parlarvene. O, meglio: sarei dovuto essere qui per parlarvene.

Perché, anche solo leggendo l’introduzione di questo post, e senza conoscerlo, risulterà evidente come sia impossibile (per chiunque, figuriamoci per me) comporre una recensione normale di un’opera di Ivan; e, dunque, questo articolo è destinato ad una metamorfosi, a svestire i panni della seria ed anzi seriosa critica musicale per trasformarsi in una di quelle cose sghembe e queer che proprio l’autore di Bizzarro Bazar mi ha insegnato ad amare; una sorta di “diario emozionale” delle impressioni (intese nel loro senso più puro) che mi hanno colpito mentre ascoltavo Graveyard Bound per la prima (e finora unica: ho rimandato ad un prossimo futuro un “relistening” più ponderato) volta. Tanto è chiaro che, per quel che mi riguarda, è un disco splendido e dovete acquistarlo sub… che cosa fate ancora qui?

La più solida di queste impressioni è stata quella di essere finito non all’interno di una jam session avvenuta da qualche parte nei cieli d’Europa, ma in una seduta spiritica, condotta probabilmente con la meravigliosa tavola Ouija di cui Francesco Busani ha voluto omaggiare Ivan e, forse anche per questo, riuscita piuttosto bene: perché una miriade di fantasmi si aggirano per Graveyard Bound; per la precisione, i fantasmi dei “padri nobili” di cui dicevo prima. Mi era già capitato, in passato, di ascoltare alcune composizioni di Ivan (anche se mai un lavoro così organico); in quelle occasioni, lo avevo paragonato per lo stile,le caratteristiche della sua vocalità e “l’incedere” dei suoi pezzi, a Leonard Cohen ed a Tom Waits. Qui, invece, mi è parso di non percepire queste influenze; non in modo preponderante, almeno: gli artisti ispiratori mi sembra siano qui quelli che hanno gettato le basi per la nascita della musica moderna, i bluesmen che all’inizio del Novecento attraversavano l’America alla ricerca di un posto dove dormire, con sulle spalle unicamente lo sformato astuccio in cui custodivano una chitarra con le corde lise ed un patto siglato da una mano demoniaca, grazie al quale si erano garantiti il talento di trasformare gli sbuffi ritmici dei treni su cui salivano da clandestini in una musica avvolgente e capace di ammaliare chiunque. I pezzi di Graveyard Bound evocano esattamente quell’atmosfera, parlano dei campi del Kansas visti da un carro merci, delle stanze dove si è consumato un amore clandestino abbandonate all’alba con le scarpe ancora slacciate, della nostalgia di chi cerca di coprire col sarcasmo la propria solitudine; tirano fuori dall’inferno (dove probabilmente stavano facendo della gran musica) per tornare a farli parlare con noi Howling Wolf, John Lee Hooker, Muddy Waters, Sonny Boy Williamson e, soprattutto, il mio adorato Robert Johnson, al cui nome mi pare che più volte si alluda, nella musica ed anche nei testi, in tutto il disco, ed in particolare nel suo primo pezzo, Armageddon Stomp.

Eppure, in Graveyard Bound non si respira mai l’aria della sterile commemorazione del passato; l’autore si serve di un immaginario che ha ormai quasi un secolo, è vero, ma lo fa senza dimenticare mai di essere un uomo dei nostri tempi, senza fingere di stare giusto un passo oltre i binari a veder passare il convoglio su cui Johnson sta scrivendo Hellhound on my trails, e che finirà la sua corsa a Greenwood dove un marito geloso lo ucciderà con una bottiglia di whisky avvelenato. La sensibilità, che emerge soprattutto nei testi, è a volte dolente e riflessiva, altre ironicamente distaccata, ma sempre smaccatamente moderna; ad esempio, in I wouldn’t mind, si parla di una God-forsaken town, ed è impossibile non sentir risuonare in queste parole il senso di abbandono tutto contemporaneo di chi vive nella “provincia profonda” e percepisce che “tutto quello che conta” accade sempre altrove: e so di cosa sto parlando, perché è stato in un posto del genere, ed accarezzando pensieri di questo tipo, che sono cresciuto. Oppure: lo spiritoso inizio di Making it up, che recita where did I put my keys, where did I leave my car farà sorridere chiunque si sia smarrito in uno di quegli sconfinati parcheggi sotterranei che sembrano essere l’unica soluzione al traffico delle grandi città, ma è un verso che sarebbe parso del tutto incomprensibile, tanto per fare un esempio, a Chuck Berry: se non altro perché al vecchio bluesman le automobili piacevano così tanto che figurarsi se si scordava dove ne aveva lasciata una. È proprio questo, ad ogni modo, a rendere “l’operazione Graveyard Bound” meritoria: questo disco dimostra infatti, con singolare evidenza, che anche un genere musicale così “vecchio” ha ancora qualcosa, ha ancora molto da dire a chi vive questi tempi complicati.

Non che questo esaurisca questo disco, che anzi fa della sorpesa uno dei suoi elementi caratteristici. Prendete Numbers, che salta fuori proprio quando si è convinti di aver capito, di aver afferrato del tutto un disco improntato su un certo tipo di approccio, e stravolge le aspettative di chi attendeva un nuovo shuffle che strizza l’occhio al Maligno, precipitandolo in una ballata non dissimile da quelle, raccolte nell’Ottocento dal professor Child, che sbarcarono sulla roccia di Plymouth insieme con i puritani, che allargano sempre più il loro sguardo prima di giungere (letteralmente) al cospetto di Dio, e che tutti i più raffinati songwriter del XX secolo, da Woody Guthrie a Bob Dylan, hanno cercato di imitare, se non altro per decostruirle; oppure prendete I sing the body, probabilmente la mia canzone preferita, che prende le mosse da una (famosissima) poesia di Walt Whitman per esplodere in un punk blues che non avrebbe affatto sfigurato in un brano dei Gun Club. E, a questo proposito, devo raccontarvi una storia.

Finito di ascoltare Graveyard bound, ho subito scritto ad Ivan; tra le altre cose gli ho detto, appunto, che avevo molto apprezzato il riferimento a quel gruppo. Lui mi ha risposto: “non credo di aver mai ascoltato i Gun Club, ma se tu li hai sentiti, vuol dire che ci sono”.

Tolto che bisogna essere davvero degli artisti per citare anche quello che non si conosce, questo è proprio il genere di esperienze che potrebbe capitarvi di fare, conoscendo Ivan Cenzi.

E se questo non vi convince a scoprirlo, magari partendo proprio da Graveyard bound, davvero non so cosa.

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