Devo dirti una cosa – Remastered

Tornai a casa dall’ufficio prima del solito, saranno state le 15:00, e avvolto da brividi di freddo mi misurai la febbre con un vecchio termometro a mercurio: 38,8°.
“Laura” dissi a mia moglie “me ne vado subito a letto, non riesco neppure a stare in piedi”. Presi un antipiretico e mi coricai.

Mi addormentai subito, ma il mio ‘sonno’ si tramutò rapidamente in ‘sogno’.
Meglio sarebbe dire in ‘incubo’. Non saprei dire se a causa della febbre alta, o perché erano settimane che avevo degli attriti in famiglia, fatto sta che entrai come in un film del terrore, senza vie di fuga.

Tutto iniziò col bussare convenzionale di chi non attende il permesso prima di entrare; a quel suono seguì il cigolio discreto della porta ed i passi di mia moglie che entrava in camera. La fissai; non diedi peso al fatto, paradossale, che stava sorridendo, pur avendo lo sguardo vacuo di chi non ha alcuna voglia di sorridere (forse, la strana consapevolezza di chi sogna mi suggerì di non prestare eccessiva attenzione a questa contraddizione). Almeno, non vi diedi peso finché lei non pronunciò quella frase.

“Devo dirti una cosa”.

Se fossi stato sveglio, l’avrei accolta con la superficialità che merita un’affermazione tanto banale; nel sonno, tuttavia, sentii distintamente il mio battito cardiaco accelerare. Iniziai febbrilmente a preparare scuse non richieste, e probabilmente gliele avrei vomitate addosso se lei, interrompendo prima che nascesse una replica che, evidentemente, non aveva alcuna intenzione di sentire, non avesse proseguito: “Ho sentito il tuo telefono suonare, ed ho risposto…”.

Non ascoltai il resto del discorso quando mi accorsi che, dietro il suo corpo, un raggio di sole faceva baluginare la lama di un coltello. Lei seguì il mio sguardo e, questa volta con un sorriso sincero, mi si avventò contro.

Cercai di bloccarla, alzando le mani davanti al mio volto, verso cui era rivolto il primo fendente; una ferita lacerante, che mi fece gridare di dolore, si aprì allora nel dorso della mia mano destra. Il mio sangue schizzò sulle pareti, sui mobili, sui vestiti; il mio sangue schizzò sul corpo di Laura. Accompagnai lo zampillo con lo sguardo, e nel farlo incrociai il suo: alzato nuovamente il coltello, attendeva. Non stava considerando la possibilità di avere misericordia; stava decidendo dove avrebbe dovuto colpirmi.

Approfittai di quel momento di esitazione; mi allungai verso il comodino, alla ricerca di qualcosa con cui difendermi. Ben misere mi apparvero allora le mie possibilità di salvezza: trovai solo i miei occhiali, la scatola delle pillole, una bottiglietta d’acqua, un vecchio libro. Afferrai quest’ultimo nella mano ferita, e bilanciai il braccio deciso a colpire la mano che reggeva l’arma con cui mia moglie stava tentando di uccidermi. Lei, tuttavia, fu più lesta.

Colpì di nuovo, con lucidità; solo all’ultimo istante riuscii a frapporre tra lei e me il vecchio volume consunto. Il metallo dilaniò la copertina e lacerò con crudeltà le pagine; tuttavia, non gli riuscì di raggiungere il mio cuore, verso cui era diretto, e neppure di infliggermi una ferita superficiale. Con la mano che continuava a sanguinare, tirai verso di me il libro, in cui il coltello era rimasto bloccato, facendolo così sfuggire dalle mani di Laura.

Mi guardò un attimo, aggiungendo quell’intollerabile affronto alla lista di motivi per cui mi aveva condannato a morte; con furore, si chinò su di me e cinse il mio collo con le sue mani. Scalciai, tentai di alzarmi, iniziai a roteare le braccia; fu solo quando, perfino nel sogno, il mondo si stava facendo scuro, che sentii di aver finalmente colpito il suo volto. Accecata dal dolore, allentò momentaneamente la presa; appoggiai le mani al suo petto e la spinsi lontano da me.

Riprendendo fiato, la vidi barcollare mentre scivolava giù dal nostro letto, poggiare un piede sul pavimento e perdere la presa, cadendo all’indietro fino ad andare ad infrangersi il cranio contro il comò. Tutto, allora, si concluse. In un lago di sangue, ossa polverizzate e materia cerebrale.

Ansimavo. Mi alzai e mi avvicinai a lei: di sicuro era morta… ed ora, cosa dovevo farne? Prima di prendere una decisione, me l’ero già caricata in spalla; fu allora che, come per magia, davanti ai miei occhi si parò il grande armadio che occupava tutta una parete della nostra stanza. Fu quando pensai “Perché no?”, che il sogno si spezzò e mi svegliai.

Sudavo copiosamente, non so se per colpa della febbre o dell’incubo, così dannatamente reale nei suoi vividi particolari.

Volevo un po’ d’acqua; mi voltai per afferrare la bottiglietta che avevo portato con me. Mi colpì il libro che giaceva accanto al mio letto da mesi, senza che fossi riuscito neppure ad iniziarlo: ricordavo che fosse vecchio, certo, ma non che avesse un foro sulla… Strinsi la bottiglietta; una ferita che non esisteva prima che la sognassi gettò fuori una stilla di sangue.

Alzai gli occhi all’armadio. Un’anta si stava aprendo.

Questo racconto presenta una “versione alternativa” per quello, con lo stesso titolo, pubblicato qualche tempo fa da kikkakonekka, che spero non se ne avrà a male, sul suo blog; alcune frasi di quel racconto (tra cui l’incipit) sono qui riportate fedelmente. La mia versione, me ne rendo conto, differisce significativamente dall’originale, e senza dubbio rispetto a questa si presenta decisamente più inquietante: ma abbiate pazienza, ho scritto questo racconto mentre ero a casa malato, e probabilmente con la febbre alta.

2 thoughts on “Devo dirti una cosa – Remastered

  1. E’ un racconto molto bello, e sono lieto che tu abbia preso spunto da quanto scritto da me.
    Ti ringrazio e mi complimento, perché il tuo stile di scrittura è certamente migliore del mio.
    Ciao Gaberricci.

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