Tragicamente vincente

Definire cosa siano la destra e la sinistra è un’impresa a cui molti (io compreso, naturalmente) si sono applicati fin da quando, al tempo della Rivoluzione francese e della Convenzione nazionale, i due termini vennero utilizzati nello stesso senso in cui li utilizziamo noi, ossia per definire le due più “grossolane” scuole di pensiero e di azione presenti sulla scena politica; e certo ha un qualche interesse storico che, fin dall’invenzione della democrazia rappresentativa intesa nel suo senso moderno (sempre che oggi come oggi tale senso abbia ancora un senso) si sentisse questo bisogno di chiarezza, perché ciò dimostra che il parlamento venne creato non per comporre, ma per alimentare i conflitti: non come l’ufficio di un giudice di pace, che ha il compito di far giungere ad un compromesso, impossibile praticamente sempre, gli opposti interessi di due parti, ma come un campo di battaglia in cui, infine, solo una di queste avrebbe trionfato (ed a vederla così è tanto logico quanto inquietante che il ruolo di vincitore di questo scontro sia infine toccato ad un generale privo di scrupoli come Napoleone Bonaparte… ma certo ciò era dovuto al fatto che la democrazia, all’epoca, era ancora immatura). Dico “interesse storico” perché almeno per me risulta evidente che, allo stato attuale, gli organi deputati all’esercizio della democrazia mantengono questa funzione (che spero nessuno si offenda se ammetto di ritenere fondamentale) ad un livello puramente formale e, per così dire, teatrale: l’opposizione tra i politici che siedono nei settori contrapposti delle camere viene quotidianamente messa in scena (soprattutto, nel momento che stiamo vivendo, fuori dei parlamenti), ma quando si vanno ad approfondire i punti di vista della destra e della sinistra “istituzionali” (cioè, della destra e della sinistra che riescono ad arrivare a sedere nei parlamenti) delle maggiori democrazie occidentali (Stati Uniti, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia…), ci si rende conto che essi differiscono significativamente solo su questioni marginali, ed alla fine tutto spesso si riduce a qualcosa di poco più raffinato di “devo governare io perché sono più bello/ricco/sessualmente attivo del mio avversario”. Il primo (e probabilmente unico) dibattito tra i candidati alla presidenza degli Stati Uniti dovrebbe averlo dimostrato.

Ad ogni modo, non è per questo che credo che ricercare una precisa definizione di cosa siano la destra e la sinistra sia (e sia sempre stato) sostanzialmente futile, quanto piuttosto perché tali tentativi “tassonomici” pretendono di essere assoluti.

Esiste infatti una diffusa convinzione, sostanzialmente inconscia, che vuole che i due termini siano dicotomici, e che possano essere utilizzati solo ad un livello per così dire macroscopico: chi ha provato a rispondere alla domanda “cos’è la destra, cos’è la sinistra” (escluso un altro Gaber, che lo fece con l’intenzione di divertirsi e probabilmente ignorando gli utilizzi nefasti che sarebbero stati fatti della sua risposta) lo ha sempre fatto nella prospettiva di chiarire in che modo un partito o, al limite, una persona potessero essere considerati come appartenenti all’una o all’altra sponda; nei fatti, tuttavia, è praticamente impossibile individuare un esemplare (individuale o associativo) che possa essere indicato come espressione pura di una delle due parti in causa: ciascuno di noi, in ogni momento ed a seconda di quello di cui si parla o delle esperienze vissute nel tempo (e lo dico senza voler scadere nelle becere semplificazioni alla “se non sei comunista a vent’anni e fascista a cinquanta non hai capito un cazzo della vita”), può essere e, anzi, è contemporaneamente di destra e di sinistra su argomenti diversi, o di destra in un momento e di sinistra in un altro sullo stesso argomento; a volte, addirittura, la stessa idea può passare da un lato all’altro dello schieramento in base a come evolvono e “si assestano” gli avvenimenti che “le stanno intorno”: ne parlavo, non troppo tempo fa, a proposito della libertà di parola. Difendere questo diritto, fino a qualche anno fa, quando ad attaccarlo erano dei potenti che tentavano di imbavagliare chi stava denunciando un abuso della loro (ingiusta in partenza) posizione di preminenza, mi sembrava naturalmente di sinistra; oggi sono di tutt’altra idea, visto che esso è utilizzato come dispositivo retorico dalla destra più radicata, con lo scopo di proseguire la diffusione di idee razziste, sessiste ed in generale prevaricatrici.

Su questi importantissimi distinguo ammetto di dover pagare un significativo debito ai Wu Ming i quali, in un momento in cui l’esiziale mantra del “non essere né di destra né di sinistra” si diffondeva a macchia d’olio nella politica italiana (e forse sarebbe il caso di indagare su come siamo passati dal successo di un movimento che negava di appartenere a qualunque categorizzazione tradizionale, a quello di partiti che non per caso rivendicano di essere identitari), scrissero parole fondamentali che intendevano riaffermare l’esistenza delle divisioni tra le due parti e nel contempo mettere in luce la difficoltà di tracciare un confine netto tra esse. Ciò non impedì al collettivo bolognese di compiere una loro “operazione divisoria”: nella loro definizione, che devo ammettere essere una delle mie preferite, la sinistra è quell’ideologia politica che riconosce l’esistenza di un conflitto (ed ecco che ci torniamo), su base economica e dunque intrinseco alla società, laddove la destra lo nega, ed imputa ogni “tensione sociale” a coloro che da una società altrimenti sana sono esclusi (da questo punto di vista, e solo da questo, giustamente). Per quanto queste parole siano condivisibili, e ripeto che per quanto mi riguarda lo sono parecchio, trovo che esse, come tutte quelle che si proponevano lo stesso intendimento, soffrano di quello che, prendendo in prestito la terminologia dalla fisica quantistica, potremmo definire “principio di indeterminazione”: concentrare la propria attenzione su questo o quell’aspetto che distingue la destra dalla sinistra significa “perdere di vista” tutti gli altri che le separano; e per continuare ad utilizzare un lessico scientifico o, meglio, matematico, si potrebbe dire che ciascuno degli elementi individuati dai Wu Ming, o da Norberto Bobbio (che voleva la destra essere la parte della libertà e la sinistra della giustizia) o da altri autori di cui dovrei ricordare il nome, vista l’eccezionale sintesi di cui sono stati capaci (mi riferisco in particolare a chi scrisse che la destra esclude ed la sinistra include), sono necessari ma non sufficienti per definire con chiarezza la destra e la sinistra. Per altro, che ad una definizione condivisa e definitiva non si riesca a giungere dovrebbe essere naturale, dal momento che, come dicevamo, i due campi assai spesso, anzi, sempre, finiscono con lo sfumare l’uno nell’altro.

Questo articolo, lo confesso, non doveva diventare una specie di riassunto di quali siano, attualmente, le mie teorie a proposito del “bipolarismo politico”; ed anzi, le parole che avete letto fin qui dovevano essere una breve introduzione che aveva lo scopo di dimostrare, o di tentare di dimostrare, che quando si voglia affrontare un qualunque discorso su destra e sinistra ci si dovrebbe accontentare di riferirsi al significato istintivo che hanno questi due termini: “ordine” (ma sarebbe meglio dire “ordine fine a se stesso”, “ordine per amore dell’ordine”, fattispecie su cui ho espresso qui il mio pensiero) contro “evoluzione”, “conservazione” contro “cambiamento”. Questa distinzione “a spanne” mi sarebbe servita per introdurre una domanda per cui, nel tempo risicato che a questo punto mi posso permettere di sottrarvi, non credo di riuscire ad elaborare una risposta, ma che voglio comunque proporvi, con la promessa di tornarci, magari, in futuro: ma perché, spesso, proprio coloro che vivono ai margini della società, coloro che da un rivolgimento dell’ordine sociale più avrebbero da guadagnare, sono tra i suoi maggiori oppositori? Perché, a voler essere più brutali, così spesso i poveri sono di destra?

Per parte mia, credo che una spiegazione di questo curioso fenomeno risieda nella psiche umana, che è spaventata dalle perdite assai più di quanto non sia ingolosita dalle vincite: ed è una fortuna che abbia qui raggiunto il limite massimo consentito per un post “denso” come questo, perché altrimenti mi sarebbe toccato esplorare nel dettaglio la strategia attuale delle destre mondiali, che consiste nel comprimere i diritti delle classi subalterne mentre costruiscono dei nemici immaginari che sarebbero pronti a sottrarre loro anche i pochi che ancora hanno.

E che, se ho ragione, non può che risultare tragicamente vincente.

18 thoughts on “Tragicamente vincente

  1. Dobbiamo lavorare sulla lunghezza delle introduzioni: arrivo a fine post che sono spossato… 😀 La variante alla teoria dei giochi combinata ad una politica autoritaria è un modello che mi convince, comunque. Ciò che dovrei evitare di fare è considerare la diatriba fra destra e sinistra come una eterna lotta fra “il male e il bene”, cosa che purtroppo inconsciamente sono portato a fare (e me ne dolgo).

  2. Il bipolarismo politico è apparso in Italia con la discesa politica di Silvio, che aveva – tra i vari obiettivi – quello di formare due schieramenti di facile manovrabilità politica, cos’ come accade negli USA.
    Nel medio periodo questo fenomeno era anche riuscito, con 2 forze politiche principali contrapposte, ma oggi siamo tornati alla frammentarietà dei voti ed alla necessità di coalizioni che vedono nel loro interno partiti che non sono né di destra né di sinistra, ma che si adattano al momento politico che si sta vivendo.
    Per esempio Renzi (che ha governato con l’appoggio di SIlvio), lo stesso Silvio che ha appoggiato sia il centro-sinistra che il centro-destra (vedasi anche i loro voti del Parlamento Europeo), e pure Salvini che è passato da una alleanza “simil-centro-sinistra” con i 5S ad una opposizione dai banchi del centro destra.
    Il vero problema, tuttavia, non è tanto il “Posizionamento” politico dei partiti, quanto la loro ideologia. Senza addentrarmi, a me pare *evidente* che ci siano partiti politici del tutto privi di una base ideologica, se non la volontà di racimolare i voti del popolo dei malcontenti.
    E questa non è politica, a mio parere.

    • scusami se dissento su un punto e mi permetto di dirtelo: Il bipolarismo politico NON è apparso in Italia con la discesa politica di Silvio. vogliamo dimenticare l’Italia del dopoguerra e la contrapposizione storica tra democristiani e comunisti (per un certo periodo con i socialisti)? il vero bipolarismo era quello, che aveva anche una proiezione internazionale, quando il mondo era diviso in due blocchi.
      ovviamente il vero bipolarismo politico è finito col crollo dell’URSS, nel 1991, ma da noi aveva già cercato di superarlo Craxi, ma senza riuscirci davvero.
      al crollo dell’URSS è seguita la ristrutturazione del sistema politico italiano, attraverso Mani Pulite, la fine della DC e la trasformazione del PCI in un generico Partito Democratico.
      dopo di allora abbiamo avuto, e abbiamo, un bipolarismo finto, soltanto di facciata, ben rappresentato da un anti-berlusconismo formale, quando in realtà la trasformazione della società italiana in senso neo-liberista è stata condivisa anche dell’opposizione che si vanta e si vanta in sostanza di saperla fare meglio e con più buon gusto.
      forse qualche traccia di bipolarismo vero sta ricomparendo oggi negli USA con la netta spaccatura determinata dalla presidenza Trump; a differenza che da noi per l’anti-berlusconismo, lì l’anti-trumpismo ha assunto caratteri di netta contrapposizione sociale e quasi di classe. però rimane il fatto che per potere solo sperare di aggregare una ipotetica e confusa maggioranza gli anti-trumpiani radicali hanno dovuto allearsi con la vecchia dirigenza democratica, cioè col ceto politico che ha preparato e generato Trump.

  3. risparmio le lodi anche a questo post, che ripetute rischiano di diventare uggiose e vengo al punto centrale (scusandomi se in questo periodo faccio fatica a concentrarmi su altro).
    giustamente ricordi che la differenza fra destra e sinistra politica risale alle origini stesse del parlamentarismo moderno, cioè alle assemblee della rivoluzione francese; ma ne perdiamo il senso – secondo me – se ci lasciamo sfuggire che la distinzione fra destra e sinistra è ben più antica e di origine quasi antropologica: la ritroviamo nella Bibbia, come elementare distinzione fra bene e male; ma ovviamente è la distinzione tra la mano destra, capace e buona, e quella sinistra, meno abile e dunque simbolo del male. ma la ritroviamo negli aruspici romani; e da ebrei e romani passa al cristianesimo: Gesù e tutti i buoni siedono alla destra del padre, mentre i malvagi e i reprobi stanno alla sinistra. credo che la sinistra alla Convenzione Nazionale si ponesse in questa posizione nell’aula proprio per indicare la propria opposizione al potere,ai nobili e al clero.
    essere di sinistra significa fare parte del movimento politico e sociale che “si oppone allo stato delle cose presenti” (Marx definisce così il comunismo), cioè al potere. potere politico che, in tutte le religioni, è espressione della volontà di Dio.
    messe così le cose, è ovvio che la sinistra perde sempre (o quasi, salvo che in acuti momenti di crisi): è lei stessa che sceglie la parte perdente – però sperando sempre di vincere, naturalmente, e riuscendoci anche, ma soltanto a volte e per brevi periodi.
    convergo quindi, nella sostanza, con la tua definizione finale, e abbozzo anche una risposta: i poveri sono di solito di destra perché istintivamente sentono di poter perdere più di altri dal cambiamento (nel senso che hanno così poco da non potersi permettere di perderlo); a meno che non si trovino nel marasma di una perdita in atto del necessario per sopravvivere, e allora diventano per un po’ di sinistra perché sperano di recuperarlo, e fino a che non l’hanno recuperato.

    • La tua considerazione sulla sinistra e sul perché si chiami così è molto interessante. Tra l’altro l’idea di Marx, come si vede in questo post, è anche la mia. Riguardo il “perdere sempre”, io credo che la guerra della sinistra sia “di logoramento”: piccole vittorie che spigono (o tentano di spingere) “il mondo” un po’ più “avanti”.

      • sì, la sinistra è il cambiamento.
        ma non sempre il cambiamento è positivo, visto poi sulla lunga distanza. esiste l’eterogenesi dei fini: intenzioni buone che producono risultati sbagliati, per la complessità delle previsioni, superiori alle capacità umane di analisi.
        così l’idea di Marx che ai filosofi toccasse trasformare il mondo più che interpretarlo è stata perfettamente realizzata, direi, ma gli esiti sono catastrofici.

        • Sull’eterogenesi dei fini ti do ragione, ma sta di fatto che a livello di diritti delle classi subalterne siamo messi meglio rispetto a quando Marx ha scritto “Il capitale”. Se non altro oggi come oggi in molti riconoscono che le classi subalterne LI HANNO, dei diritti :-).

          • il discorso qui si allarga parecchio; sono favorevole anche io ai diritti delle classi subalterne, ci mancherebbe; certo che però che non si è neppure mai visto un arricchimento privato e concentrato nelle mani di pochi signori semi-feudali come quello in atto in questi tempi: sono i moderni faraoni, e l’area dei garantiti si + ristretta fino a farne quasi dei privilegiati, che si comportano di conseguenza.
            e infine è catastrofico dal punto di vista dell’ecologia planetaria questo relativo benessere di ampi gruppi semi-benestanti, che mantiene il consenso inconsapevole al nuovo tecno-feudalesimo che di fatto ha già preso il potere riducendo gli stati a propri vassalli.

  4. @ kikkakonekka

    😉 nell’Italia di don Camillo e Peppone il vero bipolarismo era quello tra democristiani e Fronte del Popolo (comunisti e socialisti alleati); gli altri partiti, piccole combriccole elettorali, erano semplici contorni – tranne che con Craxi (pentapartito, ecc.), appunto dall’83 al 93, quando c’erano formule, come quelle che ricordavi tu, ma eravamo già anche nella transizione internazionale post-comunista

  5. La distinzione dei Wu Ming che citi la fa anche uno studioso americano (di cui adesso mi sfugge il nome… ), secondo il quale per la destra il conflitto e’ frutto di una qualche causa “esterna” alla societa’ (es. gli immigrati).

    Interessante la domanda che poni sul passaggio dal ne’/ne’ ai partiti identitari. Ancora piu’ interessante la domanda centrale del post. La teoria del giochi potrebbe essere parte della risposta, ma personalmente credo che la marxiana “mancanza di coscienza di classe” sia, di fondo, piu’ esplicativa: un povero puo’ benissimo votare contro i propri interessi, se non sa quali siano i propri interessi…

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