Elianto (I venerdì del libro)

Una volta, quando ero bambino (era appena nato mio fratello, o forse prima ancora), Babbo Natale lasciò sotto il mio albero un set di soldatini di plastica del Far West.

Mio padre disapprovava che giocassi con quelle cose (l’unica arma giocattolo con cui era d’accordo che giocassi era l’arco. Forse gli piaceva Robin Hood). Dovette pensare, però, che, giacché il panzone della Coca Cola aveva fatto il danno, tanto valeva che mi spiegasse un po’ di cose riguardo quell’epoca la cui storia è stata scritta in sella ad un cavallo(cit.).

Poteva ben farlo: la storia di quell’epoca l’aveva studiata sui film di Sergio Leone (che adorava allora e continua ad adorare ora). Forse, però, non si ricordava bene di certe scene de “Il buono, il brutto e il cattivo”, se è vero, com’è vero, che mi raccontò che “quelli con la divisa blu” (che poi in realtà erano tutti colorati di blu, pure la faccia, le mani e le armi) erano “i buoni”, perché abitavano nel Nord degli Stati Uniti e rifiutavano la schiavitù, mentre quelli con la divisa grigia, invece, erano “i cattivi”, che stavano al Sud degli Stati Uniti, volevano continuare a tenere i neri in schiavitù e insomma erano perfidi ed infingardi.

Presumo che, per quel che poteva interessare al figlio di quattro anni di due genitori mediamente progressisti, questo è quanto poteva interessare. Col tempo, dovette dirsi mio padre (ed aveva ragione), avrei imparato che le cose non stavano proprio così; nonché, che in certi altri contesti geografici quelli che vogliono mantenere una qualche forma di schiavitù abitano al Nord, più che al Sud, dove comunque di schiavi ce ne stanno di più che in ogni altro posto del mondo.

Ma poco male: tanto, in definitiva, nelle campali battaglie che riuscivo a mettere su con quelle quindici o venti figurine di plastica (all’epoca mi sembravano molto di più, ma si sa l’effetto moltiplicativo che hanno gli occhi di un bambino), non vinsero mai né i nordisti né i sudisti, né i blu né i grigi. No, alla fine quelli che vincevano, dopo aver fatto precipitare nel Canyon Bordo del mio Tavolo tutti i rappresentanti di entrambe le fazioni, erano i rossi. I rossi intesi come gli indiani.

Ho un debole per gli indiani, ed oggi riesco a spiegarmi perché (perché anche loro sono degli scarti come me, ovviamente). Ma va a capire perché mi piacevano tanto da bambino. Forse erano le piume che portavano sulla testa. Forse era figo, pensare che questi pellerosse vivevano negli stessi posti dove vivevano i pallidissimi statunitensi che avevo potuto conoscere in quei quattro o cinque anni che avevo camminato su questa Terra (tipo Bill Clinton, toh, che stava sempre in televisione). Forse era perché mi erano simpatici Giglio Tigrato ed i suoi amici, che avevo imparato a conoscere grazie ad una versione di Peter Pan ancora più farlocca del Re Leone di cui ho avuto modo di parlare qui. Forse è che pure io, che sono stato sempre un bambino piuttosto tranquillo, esercitavo una mia forma personale di ribellione, andando a tifare proprio per quelli che tutti indicavano come pericolosi farabutti, che assaltavano le diligenze, lanciavano frecce al curaro nel culo del coprotagonista (cit.), rapivano fanciulle e davano fuoco alle case dei buoni coloni bianchi.

(Sì, insomma, vi sto dicendo che ho scoperto il revisionismo del western prima di conoscere “Piccolo grande uomo” e di ascoltare “Fiume Sand Creek”).

Cosa c’entra tutto questo con “Elianto“, il libro di Stefano Benni che vado a presentare oggi nella per troppo tempo dimenticata (cit.) rubrica “Venerdì del libro“? C’entra. Perché in questo libro accade la stessa cosa che accadeva in quelle storie che io mi raccontavo mentre lanciavo i miei Pellerossa all’assalto di nordisti, sudisti e chi più ne ha ne metta. E cioè, che i veri buoni siano quelli che tutta la brava gente normale ha imparato a considerare i cattivi.

Tutta la storia ruota attorno, come è facile intuire dal titolo, ad Elianto, un bambino di dieci anni che, nel momento in cui la storia inizia, giace a letto in una clinica del paese di Tristalia. Tale clinica è diretta dal dottor Satagius, che cerca in tutti i modi di evitare che si trasformi in un centro di rifacimento tette e culi, come invece vorrebbe il dottor Siliconi, uomo di mondo, occhio sognante, capello fluente, piede fetente. Siliconi vuole tirare giù con le ruspe (che forse sono quelle di Salvini, anche se il libro è stato scritto nel 1996) praticamente tutta la clinica, ma odia particolarmente il grande albero che fa ombra al cortile e che, forse, avrà un ruolo di grande rilievo nella storia.

Elianto è un piccolo genio, ma è affetto da una malattia che, da come viene descritta, pare essere proprio la depressione (e di che altro potrebbe soffrire, un genio che abita a Tristalia?). La sua malattia è un vero dramma non solo per lui, per i suoi amici e per la sua famiglia, ma anche per il quartiere in cui abita; quartiere povero, che, per fatti che sarebbe troppo difficili da spiegare e che se li spiegassi poi vi toglierei il piacere di leggere questa meraviglia, solo Elianto può salvare dalle mire del Potere, qui rappresentato dai venti Presidenti di Tristalia, da una comica caricatura del “figlio di Mike Bongiorno” (Baby Esatto), da un paio di killer per niente rassicurabili e dallo stesso dottor Siliconi.

Ecco dunque che gli amici di Elianto, Rangio (giovane chitarrista appassionato del blues del grandissimo Snailhand Slim), Iri e Boccadimiele, partono all’avventura per andare a recuperare il suo senno. Quindi, non so se avete capito: da un lato capitalismo, tv spazzatura, gente che fa bene ed in silenzio il proprio lavoro, per quanto possa essere sgradevole, insomma, quelli che tutti vorremmo essere; dall’altra un perdente depresso, un altro perdente che non ha capito che pure nella sanità al primo posto dev’esserci il profitto, tre vandali di periferia che entreranno, orrore!, in un supermercato di notte scassinando la porta, e, non ve l’ho ancora detto ma ve lo dico ora, pure tre diavoli venuti direttamente dall’Inferno, un infermiere con trascorsi poco puliti ed una ciurma di pirati transessuali (davvero); in altri termini, tutto quello che i bravi abitanti di Tristalia devono, giustamente, temere. Di nuovo, indiani contro cowboy.

Questo, ovviamente, non è che uno dei molti motivi per cui ritengo questo libro il migliore tra quelli che Benni ha scritto, nonché uno dei migliori che abbia mai letto in assoluto: ma vedete un po’ voi, ho già scritto 1086 parole solo esplorando questo ambito e, insomma, ce ne vorrebbero almeno altrettante per esplorare anche tutto il resto. La prosa irresistibile di Benni; la sua capacità di essere poetico senza essere stucchevole; il fatto che anche qui ci sia il mio adorato tema del “lo facciamo perché siamo amici, e vaffanculo tutto il resto”; l’amore, impossibile e crudele, ma senza il quale non si può vivere, neanche se non si è di questo mondo; l’avventura con la A, la V e tutte le lettere maiuscole (cit.), che Indiana Jones al confronto è il ragionier Fantozzi; Fuku Occhio di Tigre, un gran figo; Snailhand Slim, che Dio Santo quanto vorrei fosse esistito veramente eccetera eccetera.

Ma per leggere tutto questo ci vorrebbe tempo. E sarebbe tutto tempo che toglierei a quello che potreste spendere leggendo “Elianto”. Imperdonabile.

Elianto

 

8 thoughts on “Elianto (I venerdì del libro)

  1. Tolto il fatto che Elianto è anche il mio preferito della produzione benniana, devo dire che mi piace l’originale ottica della metafora cowboy-indiani che usi per spiegare le dinamiche del libro. Muy bien! I libri di Benni sono sempre particolari per le allusioni al mondo politico e alla realtà italiana ed è divertente giocare a riconoscere personaggi e/o fatti di cronaca. Una nota personale: ho adorato Brot! Parola che, tra l’altro, in tedesco significa “pagnotta” …e anche qui c’è da capire chi siano i buoni e chi i cattivi 😉

    • Il mio personaggio preferito del libro è sicuramente Rangio. Io sono Rangio, anzi :-). E poi vabbè, Fuku Occhio di Tigre.

      P.S.: poi, parliamone, quanto può essere bella una frase come: “Non è colpa sua. La colpa è dell’amore e della sua misteriosa crudeltà”?

      P.P.S.: di Benni, considero quasi di pari bellezza Saltatempo. Se non l’hai letto, leggilo!

      • Concordo! Concetto realistico in una frase dal meccanismo perfetto! “Saltatempo” è uno dei pochi che non ho letto… colgo il tuo consiglio e lo leggerò 😉 P.s. Ho trovato fighissima pure la trovata che ognuno di noi ha un tot di starnuti, di innamoramenti e via dicendo… geniale!

  2. Libro bellissimo nella mia personale classifica secondo per un pelo solo a Terra. Io , ca va san dire, se rinasco voglio essere nell’equipaggio di capitan Guepiere

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