Non più Neurosurgery Kid, sempre Magic Experience Design

La prima volta, ieri mattina, la sala d’attesa della stazione di Bologna non l’ho trovata. Oggi sono stato più fortunato (o lo sono stato meno, dipende dai punti di vista).

Lì, mi sono fermato di fronte alla targa che commemora le vittime del terrorismo fascista; o, almeno, che le commemorerà fino al prossimo colpo di spugna della “memoria condivisa”. Cercavo due nomi, in particolare.

Uno è quello di Maria Fresu. Mi sembra fosse Sartre, che diceva che siamo condannati a scegliere. Bene, la frase si applica con drammatica esattezza a questa ventiquattrenne. Che, la mattina di quel due agosto del 1980, ebbe la sventura di andare a scegliere proprio quel posto per… Ma che poi, siamo sicuri che davvero la sua fu una scelta? Quel due agosto (era un sabato, se non vado errato), per quella stazione transitava davvero chiunque. Madri in vacanza con figli. Padre che raggiungevano famiglie partite in anticipo. Stranieri che volevano emulare le gesta di tanti artisti dell’Ottocento e si dedicavano al Grand Tour. Militari in licenza (ne sono sicuro per due motivi, che sarebbe lungo e tedioso spiegare). Gente che doveva prendere una coincidenza. Magari, quel posto era l’unico posto disponibile, in quella sala d’attesa in cui, oggi, mi sono seduto anch’io; l’unico posto disponibile, in un’affollata sala d’aspetto. Che i terroristi che hanno messo quei ventitré chili di esplosivo, quali che fossero (ormai dovremmo saperlo, ma si sa come vanno le cose in questo paese: la presunzione d’innocenza dura sempre o troppo, o troppo poco), sapevano fare il loro lavoro.

Cercavo il nome di Maria Fresu perché l’ha reso famoso una poesia di Andrea Zanzotto. Perché, quando alle undici e venticinque, la bomba esplose, questa ventiquattrenne che forse aveva scelto, e forse no, ci stava seduta esattamente sopra.

Ne uscì, letteralmente, polverizzata.

L’altro nome che cercavo, era quello di Iwao Sekiguchi. Sekiguchi era un ragazzo giapponese, che si trovava in Italia va a sapere perché. Per studiare. Per vedere Firenze e Venezia e Roma e farsi prendere in giro dai comici che in quegli anni andavano per la maggiore. Perché si era innamorato di un’italiana. Non lo so: quel che so è che nessun indovino poteva sapere che sarebbe andato a morire a migliaia di chilometri da casa, coinvolto in una guerra che con lui non aveva  nulla a che fare. Sekiguchi l’ho cercato perché suo padre, dal Giappone, venne a vedersi, mi pare di ricordare, tutte le udienze del processo che seguì a quella strage, o almeno una buona parte. E perché quel ragazzo giapponese è la prova lampante di quanta verità ci sia, in quel famoso detto africano: quando gli elefanti lottano, è l’erba a restarne schiacciata.

Come ci sia arrivato, a Bologna, e perché, è qualcosa di lungo e complesso, che magari vi racconterò un’altra volta: vi basti sapere che c’entrano Francesco De Gregori (davvero), la mia amica Anita, che vive a Verona, e mio fratello, che invece è di casa a Ferrara. Vi interesserà invece sapere, magari, perché abbia deciso di girarmi tutta la stazione di Bologna Centrale, per cercarmi proprio quella lapide (e l’orologio fermo alle undici e venticinque, che però non sono riuscito a trovare). Perché dovrebbe essere un dovere di chiunque passi per quella stazione, certo. Ma anche per espiare. Per espiare cosa? Per saperlo, dobbiamo fare un passo indietro. Ma tanto l’avremmo dovuto fare lo stesso, per spiegare cosa c’entri questa storia che vi sto raccontando col magic experience design.

Come sanno tutti quelli che mi seguono, io vivo (ancora per poco, purtroppo) a L’Aquila. Eppure, per andare a Verona (prima tappa di questo mio mini tour in giro per l’Italia) non sono partito dal capoluogo d’Abruzzo: no, sono partito da un altro capoluogo di regione, più a sud. Un autobus che senza dubbio potrebbe essere definito panoramico mi ha poi accompagnato fino a Napoli. Da qui, un treno ad alta velocità (lo stesso dell’altra volta in cui mi sono avventurato fuori dalla mia città) mi ha portato fino alla città scaligera. E già qui, come si vede, qualcosa da espiare c’era: l’essere di nuovo venuto a patti con la mia coerenza. Che a me i treni ad alta velocità, quelli che passano in val di Susa ma, insomma, pure gli altri, non è che mi piacciano molto; eppure, anche questa volta, me ne sono servito. Ma già l’altra volta avevo espresso le mie opinioni su questo argomento, e quindi non mi ripeto.

L’altra cosa che dovevo espiare era ciò che ero andato a fare, in quell’altro capoluogo più a sud; a lavorare, come forse i più arguti di voi avranno intuito. Un lavoro non ad alta specializzazione, ma comunque pagato bene. Un lavoro contro il quale, in passato, spesso mi sono espresso, e che tuttavia adesso mi ritrovo a fare. Mio fratello (che qui potete immaginare con le fattezze dell’insopportabile Grillo Parlante di Pinocchio) mi ha spesso fatto notare questa contraddizione. Non in questo fine settimana che abbiamo trascorso insieme, devo dire; ma comunque mi è sembrato che qualche volta volesse dirmelo.

Ed insomma, in qualche modo sentivo di dover fare qualcosa che fosse coerente con ciò che penso e che dico. Ed è per questo che quel mio accidentato, sia pur breve, viaggio che è andato dal binario dieci al binario uno è stato in un qualche modo una forma di pellegrinaggio. Non di pellegrinaggio laico, che queste cose finiscono poi sempre col pranzo al sacco nella trincea dove le persone morivano con le budella in mano. Trovategli voi un altro nome, se credete, ma non chiamatelo così.

Questo non sarebbe tuttavia bastato, credo: come dicevo su, ritengo che chiunque passi per quella stazione dovrebbe andare a dare uno sguardo a quella lapide. Ma, per fortuna, una parte dei miei peccati avevo già provveduto a scontarli a Napoli. Ed è qui che entra in gioco il magic experience design.

Come sa chi mi segue da qualche tempo, è un po’ che mi applico allo studio di questa particolare “arte magica” messa a punto da Mariano Tomatis e Ferdinando Buscema, e che consiste, essenzialmente, nel portare il magico, l’inaspettato, il meraviglioso nella vita delle persone. Se volete saperne di più, qui racconto un’esperienza magica che ho progettato proprio per Anita; in un articolo che ho già linkato più su (ma che ri-linko per comodità) ho invece raccontato di quando ne sono stato destinatario.

Della stazione di Napoli ho già parlato qualche settimana fa (sì: ci sono finito per lo stesso motivo).  Voglio però sottolineare che mi è sembrata estranea dall’ambiente che la circonda non solo dal punto di vista architettonico, ma anche da quello sociale. Dentro, i napoletani sono in netta minoranza; e quelli che ci sono sono adeguatamente vestiti e valigiati per non corrispondere all’immaginario che l’italiano medio ha del napoletano. Come in tutte le stazioni moderne, l’interno è ricco di negozi che si suppone possano esaudire tutti i capricci di chi pretende di andare da Reggio Calabria ad Aosta in tre ore, e che si secca pure di dover aspettare quarantacinque minuti per una coincidenza; nonché di bar, che servono panini preparati con la stessa bresaola che compro al discount, e che però te li fanno pagare quattro euro e cinquanta. A proteggere il progresso, una dose abbondante di militari con fucili alti almeno il doppio di me (non ci vuole molto, ma comunque)

Fuori, invece, c’è tutta una teoria di pizzerie, kebabberie, piadinerie, forni e pasticcerie che si chiamano con nomi tipo “Amore di sfogliatella”; tutti hanno insegne che sono state riciclate chissà quante volte dagli anni Ottanta. Il napoletano si sente ovunque. La gente è vestita da mediamente a molto male. E qualcosa che le archsitar che mettono mano agli scali ferroviari dimenticano sempre: i barboni. Ed i pazzi. Che, anche se ora questa stazione è un simbolo di ripresa e non più di degrado, non sanno comunque dove andare, e quindi continui a rivederteli fuori dalle vetrate, che girano in tondo, parlano soli, cercano di non morire di caldo o di freddo. E raccolgono sigarette che qualcuno ha gettato ancora accese, per fare due tiri.

Quest’ultima cosa l’ho vista accadere coi miei occhi, mentre mangiavo pane, bresaola e rabbia. Il mio senso di colpa è stato il dessert.

Cosa dovevo fare? La cosa più sensata mi sembrava comprare un pacchetto di sigarette ed andare ad offrirglielo. Mancavano venti minuti dalla partenza del mio treno, e non ho trovato un’alternativa più accettabile. Ho fatto una corsa, ho acquistato un pacchetto di Merit da dieci, sono uscito dalla stazione. Mentre lo facevo, mi sono reso conto del fatto che non è cosa comune, che i barboni abbiano un accendino. Mi sono ovviamente dato della protesi della mia stessa minchia (cit.), ed intanto mi guardavo intorno e quel signore dalla lunga barba non riuscivo a vedere dove fosse finito. Cazzo.

È stato allora che mi si è avvicinato un ragazzo e mi ha chiesto una sigaretta. Gliel’ho offerta, e nel mentre ho avuto un’idea: avevo visto, dove quel signore aveva smosso i secchi dell’immondizia alla ricerca di una cicca ancora accesa. Certo, se gli avessi lasciato un pacchetto intero (e chiuso) lì, un qualunque turista avrebbe potuto raccoglierlo. Ma chi vuoi che vada a recuperare un pacchetto aperto? Magari c’ha messo le mani sopra un barbone.

Insomma, quel ragazzo mi è parso un segno del destino. Ancora di più, quando si è offerto di vendermi un accendino. Credo non abbia mai incontrato un cliente così entusiasta.

Quel pacchetto è rimasto lì, insieme con un accendino arancione, fuori dalla stazione di Napoli Centrale. Non so se l’ha raccolto la persona per cui ce l’avevo lasciato. Spero di sì.

Lo so: un pacchetto di sigarette non è esattamente la priorità da soddisfare, per uno che gira intorno ad una stazione frugando nei cestini. Ma, in definitiva, chi l’ha detto che per aiutare uno che sta morendo di fame, basti solo dargli un piatto di minestra? Chi l’ha detto che anche nella vita di un uomo del genere non possa esserci un momento di sorpresa, che origini da un pacchetto da nove di Merit e da un accendino trovati dietro i secchi della munnezza? Chi l’ha detto che un morto di fame non si meriti un po’ di magic experience design?

In definitiva: chi l’ha detto che la vita di merda che fa quell’uomo sia una condanna quotidiana e senza appello?

E chi l’ha detto che io non possa sentirmi un po’ meno in colpa, anche se questo articolo lo sto scrivendo col WiFi di Montezemolo?

Proprio nessuno, ecco chi l’ha detto.

8 thoughts on “Non più Neurosurgery Kid, sempre Magic Experience Design

    • Potrei anche non essere io, ma almeno una volta è capitato:-). Sai che una volta ho pensato di fare tipo bus magic? Sugli autobus la gente è sempre tanto triste…

        • Infatti è per quello che devo molto migliorare, prima. Un’altra idea che molto mi piace è quella di non approcciare le persone con “posso farti una magia?”, ma piuttosto con “puoi farmi una magia?”. Richiede tutta una serie di adeguamenti nei giochi, ma si può fare.

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