Il seggio vacante (I venerdì del libro)

Nelle scorse ventiquattro ore, il mio smartphone, ogni volta che aprivo Google Chrome, mi consigliava insistentemente di leggere questo articolo, pubblicato ieri dall’edizione online del Foglio. Oggi, preso per sfinimento, ho deciso di cedere: al termine della lettura, non avevo bisogno di molte altre prove, per convincermi che la realizzazione di un’intelligenza artificiale veramente efficiente è ancora di là da venire.

Ammettiamolo: nel mondo di oggi, ci sono poche cose (e forse ancor meno persone) che ci conoscono bene come i nostri smartphone, cui affidiamo i nostri segreti più reconditi (al minimo, ciò che ci piace guardare online). Pure, un’entità che ha accesso ad una fonte tanto privilegiata sulle mie preferenze, non è in grado di capire che non potrei mai trovare interessante o, addirittura, condivisibile, un articolo che raccoglie una tale quantità di stupidaggini, che pare lo abbia scritto io; una tanto ipocrita irrisione di un sentimento (la nostalgia per un passato che non è mai esistito) che la parte politica di riferimento del giornale in questione cavalca ad ogni occasione valida e, spesso, anche in quelle invalide.

Un articolo che non capisce (o che finge di non capire) che, come ogni forma di razzismo, il sessismo non consiste nel porre in un ordine gerarchico uomini e donne, ma nel credere che in queste categorie si esibiscano determinate caratteristiche per il solo fatto di appartenere ad una delle due: e quindi sì, esattamente come per George Sand o George Eliot, rifiutare di pubblicare un libro ad un’autrice, solo perché è una donna e quindi, mettiamo, per natura incapace di scrivere fantasy, è un atto di sessismo. Nonché una dimostrazione di scarsa lungimiranza, se quella donna si chiama J.K. Rowling; o, meglio, Joanne Rowling: che J.K. è, appunto, lo pseudonimo che la mamma di Harry Potter dovette assumere per superare la gretta ignoranza di un editore che ha contribuito a rendere miliardario.

La Rowling è una delle mie scrittrici preferite: l’ho citata come tale, e per prima, quando ho risposto alle domande di questo tag. Ritengo poi che, sulla persona che sono ora, abbia avuto un peso non indifferente quel che lei ha scritto tra le pagine dei suoi libri e, anzi, come ho raccontato qui, credo che essere cresciuti letteralmente assieme alla più famosa delle sue creazioni sia stata una delle esperienze che hanno caratterizzato quella che sento essere la mia generazione.

Nonostante ciò (o, forse, a dimostrazione del fatto che quel pensiero contiene un fondo di verità), conclusa (non con piena soddisfazione, devo ammetterlo) la saga del giovane mago che ha rubato gli occhiali a John Lennon, per molto tempo ho praticamente ignorato quel che la sua creatrice stava facendo. A riguardarlo ora, in quell’atteggiamento riconosco la stessa ostinazione infantile di chi si affaccia al mondo degli adulti e cerca di far finta che i propri genitori non esistano; fingevo di essermi appassionato alle sue storie perché mi erano arrivate addosso prima dell’età della ragione, e non perché la scrittrice sembrasse manifestare, così chiaramente, quella categoria metafisica, a cui non ho mai creduto tranne quando leggevo ammirato la sua descrizione dell’Ufficio Misteri, che va sotto il nome di talento.

Crescere significa, credo, riconoscere ridendo quanto si è stati sciocchi da bambini. Ho letto “Il Quidditch attraverso i secoli”, “Gli animali fantastici e dove trovarli” e “Le fiabe di Beda il Bardo” (il terzo l’ho trovato un’ottima raccolta di racconti per l’infanzia e sarà forse uno dei primi libri che regalerò ai miei figli); ho letto pure “Il richiamo del cuculo”, che la Rowling ha scritto sotto lo pseudonimo (maschile, caro il mio giornalista del Foglio) di Robert Galbraith, e l’ho considerato per quello che è: una specie di “lasciatemi divertire!” di una scrittrice che può fare molto, molto di più.

Infine, in un curioso processo a ritroso, sono arrivato, pochi giorni fa, alla prima opera che la Rowling ha scritto dopo aver lasciato Hogwarts: “Il seggio vacante”. Mi sono subito pentito di non averlo letto appena è stato pubblicato.

A Pagford, piccolo (e credo immaginario) villaggio dell’Inghilterra “per bene”, d’improvviso, a causa di un’emorragia cerebrale, viene a mancare Barry Faibrother, membro “di minoranza” del consiglio municipale. Decidere come ed a chi assegnare il suo “seggio vacante” (da qui il titolo del libro) comporterà molte e, a volte, drammatiche complicazioni.

Fine della sinossi, che, me ne rendo conto, sembra simile a quella di tanti altri romanzi e, soprattutto, serie televisive: mi vengono in mente solo, ai due capi di un’ipotetica “retta della complessità”, Twin Peaks e Sentieri. Che cos’è, allora, che rende questo romanzo avvincente, emozionante, speciale? (non l’ho detto che lo è? Oh, be’, lo faccio ora) Due cose: il suo impianto ed i suoi personaggi.

“Il seggio vacante” assomiglia, per molti versi, ad un romanzo di Stephen King. Come in una storia del re del brivido, si inizia con uno stallo, una situazione di innaturale calma, venutasi a creare in una comunità grazie all’azione di un elemento stabilizzatore che, improvvisamente, viene a mancare. Nel caso di King, ciò accade spesso in ragione di “qualcosa” di soprannaturale (ma non sempre: in “Carrie”, a dare il via alla catena di eventi, è il primo ciclo mestruale della protagonista); nel caso della Rowling, invece, la storia si avvia a causa della morte di un uomo tanto comune, che perfino la sua bontà ci sembra scontata (ed a tratti quasi fastidiosa). Eppure, la metafora abusata insegna che una palla di neve può travolgere alberi secolari, sciatori esperti e perfino rifugi alpini solidissimi, se raccoglie abbastanza fiocchi da diventare una valanga; e così, quella morte e le singole azioni che ne conseguono sembrano, di per se, insufficienti a creare uno sviluppo quale che sia: eppure, una di seguito all’altra, questa originando quella che, a sua volta, porta ad una scoperta che rovescia un certo rapporto di forza, che libera la strada ad un personaggio che era rimasto nascosto dietro le quinte, ecco che ci si ritrova d’improvviso all’ultima pagina del romanzo, e non si può fare a meno di chiedersi: ma davvero, in un contesto come Pagford, la dipartita di un individuo come Fairbrother può portare a tanto?, ed a rispondersi, sorprendentemente: sì. Perché, e chiunque abbia vissuto almeno un giorno lo sa, non può esistere al mondo un posto piccolo abbastanza da non ospitare paure e desideri, gioie e rimorsi, provocazioni e pacificazioni che tra di loro non siano in conflitto.

In secondo luogo, questo romanzo alberga personaggi straordinari: chi ha letto anche Harry Potter riconoscerà in molti pagfordiani alcuni dei personaggi della famosa saga, ma questo è solo perché Hogwarts, come Pagford, è un microcosmo che vuole rappresentare la totalità del mondo; e comunque, nessuno dei personaggi è una copia carbone degli amici o dei nemici di Harry. Shirley ricorda Dolores Umbridge, è vero, ma se ne discosta nel suo essere convinta di fare il bene; Andrew è Ronald Weasley, ma privato dell’amore della famiglia e sinistramente figlio della stessa rabbia di Tom Riddle (che è, poi, anche la mia); “Cubicolo” Wall è la McGranitt spinta ai suoi più patologici (letteralmente) estremi, e suo figlio Ciccio è un incrocio tra uno dei gemelli Weasley e Gilderoy Allock, con, tuttavia, una componente tragica molto più spiccata; il Neville Paciock di questa storia, quello che nel momento giusto tirerà fuori la spada dal cappello, è un personaggio a cui la gloria è negata per diritto divino (e di Neville si capisce fin dal primo libro, che è destinato a grandi cose), ed il cui atto di eroismo sembra non portare a grandi benefici. Ancora una volta, è impossibile non riconoscere in questi personaggi delle persone che conosciamo; è impossibile non rendersi conto che questi personaggi vivono, e non sono scritti.

Riguardo i personaggi, poi, non ho potuto fare a meno di notare che la Rowling sembra aver raccolto il consiglio di Vonnegut, il quale consigliava ai suoi aspiranti emuli di essere sadici. La Rowling esercita la crudeltà al massimo grado sui suoi personaggi, e non tanto per quel che fa loro capitare, quanto perché ne parla sempre con una sincerità assoluta, senza mai censurarsi nel descrivere ciò che stanno facendo o pensando, per quanto questo attegiamento possa risultare sgradevole o non condivisibile, accettando la compassione ma scacciando la pietà.

Viene mostrato che il lutto non sempre è un sentimento titanico, e che a volte può nascondere una certa meschinità; che bisogna fare attenzione, prima di dileggiare una vecchiaia che non vuole accettarsi per tale; che anche nell’affetto e, addirittura, nell’amore può nascondersi una quota (anche significativa) di egoismo. Ci si ritrova a provare quasi schifo per certi personaggi che pure, lo sentiamo, dovrebbero essere quelli verso cui indirizzare la nostra simpatia (ed a cui, infatti, indirizzano la loro simpatia gli altri personaggi del romanzo); viceversa, ci si ritrova a guardare con occhio meno critico a personaggi che, se si incontrasse la loro controparte reale per strada, si cambierebbe marciapiede.

Ma non crediamo a ciò che non è: una storia è solo una storia, e anche coloro che arrivano all’ultima pagina con le lacrime agli occhi continueranno sempre a cambiare marciapiede. La Rowling questo lo sa benissimo, ed è forse l’ultima frase, quella che suggella l’intera opera, con straziante lucidità, a mostrarcelo.

Per capire perché, non vi resta che leggere il romanzo.

12 thoughts on “Il seggio vacante (I venerdì del libro)

  1. Lo abbiamo recensito in tanti nel Venerdì del Libro, ognuno vedendolo a modo suo, com’è giusto. Anch’io ci ritrovai parecchi elementi che c’erano anche in Harry Potter – ad esempio il funerale finale che per un attimo ricostruisce la fusione alchemica dei due mondi che nel romanzo si contrappongono, e in Harry Potter i funerali alchemici che per un attimo saldano le fratture che ne sono ben due). Quando lo rileggerò farò il confronto con i personaggi che indichi (al momento ho scordato parecchi nomi; ricordo però che avevo identificato Ron con tutt’altro personaggio, ma io non ho mai avuto molta simpatia per Ron e quindi lo vedo in modo diverso da te). Alla fine, se non ricordo male, è piaciuto a tutti, chi più chi meno (a me parecchio, devo dire).
    Invece il mio vecchio computer, in un lampo di misericordia, mi dice che non può collegarsi all’articolo che ti hanno rifilato perché non riesce ad accedere a una connessione sicura con quel sito – ma io che sono masochista domani lo cercherò col tablet, che ha un programma più aggiornato e quindi sarà meno misericordioso.
    In realtà mi piace molto anche la serie avviata col richiamo del cuculo, e giusto nei prossimi giorni dovrei leggere il terzo libro.
    J.K. Rowling può scrivere quel che vuole, ha sempre la magica capacità di farsi leggere e inchiodare il lettore come un uccellino impaniato. E anch’io la amo teneramente ^_^

  2. Pur essendo il tuo e non ti smentisci un articolo diversamente breve lo leggerò con calma sia perché la tematica è importante sia perché questo libro segna una svolta è una separazione da una scrittura ormai collaudata.
    Sono passata per ringraziarti e ricambiare il buon ferragosto.
    Entrambi amiamo molto the boss ma da subito ho trovato qualcosa di molto sensibile e puntuale nella musica nei yesyi e nei video ufficiali che accompagnano la musica dei Coldplay.

    Sherabuonagiornata

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