A Roma andai, a voi ripensai – Quinta parte

Gaberricci Planet – Roma – Quarto giorno – Il giorno più lungo

Il 21 luglio erano in programma le prove d’accesso per le specialistiche chirurgiche. Dopo la brutta esperienza con Neurosurgery Kid, e comportandomi un po’ come quei personaggi delle soap opera che dopo una delusione promettono che non ameranno mai più un uomo/una donna, non ho voluto provarne nessuna. Risultato: una giornata intera da dedicare alla costruzione del rapporto tra me e Roma. Se mi ci sono voluti quattro densissimi articoli per descrivere tre mezze giornate, allacciate le cinture, perché su questo giovedì di delirio romano passeremo parecchio tempo.

Inizialmente, era mia intenzione andare a dare finalmente un’occhiata al Museo dell’Arte Sanitaria, nei locali del vecchio ospedale di Santo Spirito in Sassia: già l’anno scorso, spinto dalle belle parole con cui ne aveva scritto Ivan Cenzi, avevo cercato di farlo, ma i complicati orari del museo me lo avevano impedito. Mi era dunque rimasto questo desiderio inappagato, che stavolta volevo soddisfare. D’altronde, come diceva Oscar Wilde, c’è un solo modo di liberarsi di una tentazione: cedervi.

Prima di uscire dal bed and breakfast, tuttavia, sono stato colto da un brivido anticipatorio, ed ho quindi deciso di dare una controllatina agli orari di apertura. Se desiderate andare a vederlo, ricordatevi che è aperto il lunedì, mercoledì e venerdì dalle 10.00 alle 12.00, e che la visita dev’essere prenotata in anticipo. Il 21 luglio di quest’anno è stato un giovedì, e comunque io non avevo telefonato proprio a nessuno. Poco male: se c’è qualcosa che queste mie puntate a Roma mi hanno insegnato, è stato che ogni volta che si lascia la Città Eterna, bisogna andarsene dicendo: “Eppure, mi sarebbe proprio piaciuto andare a vedere…”.

Con un repentino cambio di programma, dunque, decido di andare ad esplorare Trastevere, che nel corso delle precedenti visite avevo sempre bellamente ignorato (spoiler: facendo molto male). Mentre esco, la signora alla reception mi ricorda che dovrò tornare entro l’una, che nella mia stanza devono essere fatti dei lavori e devo trasferirmi in un’altra struttura. La ringrazio, perché anche oggi mi da modo di dare una ripassata al Martirologio, che ormai mi accompagna dall’inizio della settimana.

Non sono poche, le vie che staccandosi ad angolo retto dall’Ostiense si dirigono verso i ponti che conducono a Trastevere; tra le molte, scelgo via del Porto Fluviale. Proprio all’angolo tra le due strade, infatti, sorge una vecchia caserma dell’Areonautica Militare, decorata da un imponente e bellissimo murale di Blu, probabilmente l’artista di strada italiano migliore della sua generazione.

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L’opera, mi ha detto Francesco, è stata realizzata per “salvare” un’occupazione abitativa, che si era insediata nei vecchi locali dismessi della caserma e che qualche questore troppo zelante voleva rimuovere in nome della lotta al “degrado” (e, mi pare di capire osservando la parte di murale che da su via Ostiense, per far costruire qualche condominio di lusso o qualche nuovo grattacielo commerciale). Nell’arte di Blu, d’altronde, il fattore della militanza è sempre stato di primaria importanza; e, alla luce di questo, la sua scelta di qualche tempo fa, di cancellare le sue opere dai muri di Bologna, piuttosto che farle esporre in una mostra organizzata da un personaggio che è lecito dubitare condividesse con lui le idee su quali debbano essere i fini dell’arte stradale, appare coerente ed anzi l’unica percorribile.

Via del Porto Fluviale termina nel ponte dell’Industria, probabilmente uno dei meno affascinanti tra i molti ponti che scavalcano il Tevere. Costituito da un’impalcatura di metallo che sarebbe adatta più ad un ponte ferroviario che ad uno automobilistico e pedonale (per i romani è infatti semplicemente “il ponte de fero”), è battuto in bruttezza probabilmente solo dal vicino ponte Settimia Spizzichino, che si incurva sui binari poco lontano dalla fermata della metro Garbatella, e che forse vorrebbe assomigliare al Millenium Bridge di Londra, riuscendoci malissimo. All’unica donna del ghetto di Roma sopravvissuta ad Auschwitz si poteva dedicare qualcosa di meglio, forse.

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Il ponte dell’Industria (in alto) ed il ponte Settimia Spizzichino (in basso)

(Mentre cercavo immagini di queste due opere, ho scoperto che, nel 1944, le forze naziste d’occupazione fucilarono sul ponte dell’Industria dieci donne, “colpevoli” di aver assaltato il forno da cui i nazisti si rifornivano di pane, in tempi in cui anche questo era una primizia destinata a pochi. Alla memoria dell’evento è stata dedicata una lapide per iniziativa di Carla Capponi, uno dei membri del gruppo partigiano che compì l’attentato di via Rasella, che condusse alla vile rappresaglia delle Fosse Ardeatine. Carla Capponi è un personaggio affascinante, che meriterebbe un’attenzione molto maggiore di quella che le viene dedicata, spesso per i motivi sbagliati; all’amministrazione comunale romana, invece, suggerisco di spostare la lapide commemorativa in un luogo più visibile, perché su quel ponte io ci sono passato, e la lapide non l’ho vista. Meditate che questo è stato, vi comando queste parole).

Forse influenzato dalla bruttezza del ponte, inizialmente non riservo a Trastevere l’attenzione che merita: nella mia mente, lo declasso a “quartiere come un altro”, dopo aver dato giusto un’occhiata alla sede del MIUR. Se vi interessa saperlo, si tratta di una versione in piccolo del famoso Palazzaccio, il Palazzo di Giustizia di Roma: ha la stessa, stucchevole magniloquenza, fa lo stesso spreco di marmi bianchi, rivela la stessa spocchia da parte dei committenti, una famiglia di voltagabbana diventati re d’Italia con una guerra di conquista colonialista mascherata da guerra di liberazione, cui si prestarono (o furono coinvolti loro malgrado) anche personaggi che sarebbero altrimenti rispettabili (ed alla cui memoria sono intitolate molte delle vie di questo quartiere). Rispetto al Palazzaccio, tuttavia, ha due pregi: è più piccolo, ed almeno non deturpa con la sua presenza opere magnifiche che gli sorgono accanto, come invece fa il Palazzaccio con Castel Sant’Angelo.

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Proprio di fronte a questo palazzo, si trova una piccola edicola con un’icona della Madonna, molto venerata dai trasteverini: la Madonna degli Orfani. L’icona è circondata da ex voto, e se siete interessati alla religiosità popolare è una tappa obbligata del vostro viaggio. Da quel che ne so, per altro, di luoghi del genere a Roma ne esistevano parecchi, ma sono stati ormai tutti “ripuliti”, compreso quello più famoso: il muro degli ex voto in via del Policlinico, che si vede in “Vacanze romane”.

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Tornando al muro degli ex voto di Trastevere, io spero che prima o poi qualche fedele attacchi un biglietto di ringraziamento sugli occhi di Maria, per sottrarla alla vista di quella bruttura che ha davanti.

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Lievemente deluso da questa tanto decantata Trastevere, decido di scendere a Porta Portese, luogo di un famoso mercato dell’usato cantato anche da Claudio Baglioni in una sua canzone (che, ovviamente, parla di corna), percorrendo, appunto, la via di Porta Portese. Da questa via si può accedere alla piazza di San Francesco, su cui si trova la chiesa di San Francesco a Ripa Grande: la chiesa si chiama così perché, anticamente, da queste parti si trovava il porto fluviale più importante di Roma (il porto di Ripa Grande, appunto). A Roma, via Tevere, arrivavano numerose merci, molte delle quali (l’olio, ad esempio, ma anche le spezie) erano contenuti in vasi di coccio che, una volta svuotati, venivano distrutti. I cocci di questi vasi, nei secoli, si sono accumulati a costituire un vero e proprio colle artificiale, il colle Testaccio, che da il nome al quartiere che sorge proprio di fronte a Trastevere, dall’altra parte del fiume.

La chiesa di San Francesco a Ripa Grande è stata una gradita sorpresa: anche su di essa, come su tutte le chiese di Roma, si nota l’influenza del Barocco; tuttavia, è riuscita a conservare una sua dignità, e mi appare bellissima nella sua intimità. Come bonus, contiene una delle opere meno note (a mio modesto parere ingiustamente) del mio adorato Bernini, l’Estasi della Beata Ludovica Albertoni.

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Sui modi scelti da Bernini per rappresentare l’estasi delle sante abbiamo già detto in uno degli episodi precedenti, e questa serie di articoli si sta già allungando oltre misura, anche senza che io mi ripeta. Devo dire che il resto dell’impianto decorativo della chiesa, però, non regge il confronto con l’opera del Maestro. Vi dico solo che, quando ero bambino, mia nonna mi portava con se in una piccola chiesetta del mio paese. Dietro l’altare di questa chiesa, si trovava un dipinto che rappresentava san Michele che sconfigge Lucifero: ho scoperto giovedì scorso, a Roma, quel dipinto essere una copia di un quadro conservato nella chiesa di San Francesco a Ripa. Il copiatore ha fatto meglio dell’autore dell’opera originale

(In realtà, leggo sul sito della Chiesa di San Francesco a Ripa, l’opera in questione è a sua volta una copia del San Michele Arcangelo di Guido Reni. Sul sito della stessa chiesa, ho scoperto molte altre cose interessanti: ad esempio, che nel complesso della chiesa ha soggiornato San Francesco in persona, e che questa è l’unica chiesa di Roma che può vantare questo privilegio).

Torno a piazza di Porta Portese (e mi chiedo come sia possibile che in questo spazio risicato si tenga uno dei mercati più famosi del mondo) ed imbocco il ponte Sublicio; secondo la tradizione, questo ponte si trova nello stesso punto in cui si trovava quello di tavole che Orazio Coclite difese da un’incursione di Etruschi guidata da Porsenna, deciso a conquistare Roma. La cosa non mi emoziona granché.

Il ponte in questione conduce a piazza dell’Emporio, dalla quale si può avere una suggestiva vista dell’Aventino e di una delle chiese che vi sorgono in cima (credo, quella di Sant’Anselmo). Nel caso vi interessasse salirci, da via dell’Emporio, girate subito a sinistra e percorrete il lungotevere Aventino fin quasi al ponte successivo (il ponte Palatino), ma girate subito prima a destra, su via della Greca; quindi, cercate la salita dei Publici ed inerpicatevi sull’Aventino. Se, invece, non avete voglia di ascendere al colle, poco più avanti si trova la chiesa di Santa Maria in Cosmedin, nel cui portico è allocata la famosa Bocca della Verità (anch’essa resa famosa da vacanze romane: ma si tratta di poco di più che dello sfiatatoio di una fontana, e se non siete inguaribili romantici potete anche risparmiarvela) e, soprattutto, il tempietto di Ercole Vincitore, che le sta giusto di fronte.

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Il colle Aventino, tra tutti i colli di Roma che ho visitato (ma credo di averne visitati solo tre su sette), è senza dubbio quello che mi è piaciuto di più: sorge d’improvviso proprio di lato al Tevere e, salendovi, si ha l’impressione di astrarsi dal rumore e dal caos che regnano nella Capitale, dai clacson che scattano insieme al verde ai semafori (che secondo me i turisti stranieri pensano che noi siamo un po’ scemi, che quando scatta il verde abbiamo bisogno di un segnale acustico per accorgercene), dalle beghe di chi in questa città vede solo un enorme forziere da cui estrarre oro, non di rado con la forza e, anche, dai mortiferi incroci a croce uncinata (cit. di nuovo). Mentre ci salgo (non dalla salita dei Publici, ma da un’altra via che non vi consiglio perché potrebbe essere chiusa da un cancello) non posso non pensare che fu qui che le forze antifasciste del parlamento italiano, nel 1924, decisero di ritirarsi per uscire dall’aula in cui stavano quelli che avevano organizzato e, forse, anche eseguito il rapimento di Giacomo Matteotti (quando la secessione venne dichiarata, ancora non era noto che Matteotti era stato ucciso poco dopo essere stato sequestrato). Gli antifascisti seguivano una lunga tradizione di rivolta popolare: proprio su questo colle, ai tempi dei romani, si ritirava la plebe, nei periodi in cui più forte si faceva il conflitto con il patriziato.

Una delle più famose di queste rivolte fu senza dubbio quella del 494 a.C., che si concluse grazie al controverso apologo di Menenio Agrippa, un patrizio che convinse il popolo a scendere a più miti consigli comparando lo stato al corpo umano, di cui i plebei rappresentavano le braccia ed i patrizi lo stomaco; Agrippa sosteneva che, è vero, il secondo non potevano sopravvivere senza il lavoro del primo, ma che limitarsi alla digestione dei cibi non era il lavoro scevro di responsabilità che si poteva credere. L’apologo non mi ha mai convinto del tutto; ma sono sicuro che parecchi degli iscritti alla Confindustria lo sottoscriverebbero.

Sulla sommità del colle Aventino, oltre ad una “scuola elementare mista all’aperto” di cui mi piacerebbe sapere qualcosa di più, sorgono cinque chiese:

  • Basilica dei santi Bonifacio e Alessio;
  • Chiesa di Sant’Anselmo;
  • Basilica di Santa Sabina;
  • Chiesa di Santa Prisca;
  • Chiesa di Santa Maria del Priorato.

Di queste, ho potuto visitare solo le prime due; la terza richiedeva anch’essa una prenotazione che non avevo effettuato ma, sembrandomi, da fuori, bellissima, ho pensato per lunghi momenti di approfittare di una funzione che si sarebbe svolta di lì a poco. La basilica di Santa Sabina, per altro, fa il paio con la chiesa di San Francesco da me visitata poco prima: si tratta infatti del “quartier generale” dei domenicani a Roma e qui dimorò san Domenico.

Le due chiese che ho potuto visitare sono tanto affascinanti a vedersi dall’esterno, quanto deludenti una volta varcato il portone d’ingresso; hanno infatti subito pesanti rimaneggiamenti nel corso dei secoli (la basilica dei santi Bonifacio ed Alessio sembra essere stata decorata solo di recente, in particolare) che le hanno del tutto private dei caratteri paleocristiani che inizialmente possedevano. Non di meno, presentano numerosi elementi meritevoli di interesse e, in particolare, proprio la chiesa dei santi Bonifacio ed Alessio dev’essere retta da un sacerdote che mi piacerebbe conoscere; al suo interno, hanno catturato la mia attenzione un piccolo modellino della chiesa fatto tutto di fil di ferro, con due ditali da cucito a costituire le campane, i resti di un pozzo profondo cinque metri e la curiosa statua di un santo sdraiato, che sopra la sua testa ha una scala avvolta da nubi dorate. Presumo si tratti di uno dei due santi cui la chiesa è intitolata, ma non posso fare a meno di pensare che una tradizione musulmana dice che Maometto sia asceso al cielo su di una scala dorata. Per i sunniti, Maometto sarebbe partito per questa sua ascesa da una roccia situata a Gerusalemme, sulla quale è oggi costruito il santuario che si chiama, appunto, Cupola della Roccia.

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La Cupola della Roccia

Sant’Anselmo è invece arricchita da un bellissimo chiostro, che tuttavia rende ancor più deludente la vista dell’interno. La chiesa è retta dai benedettini e, nel suo cortile, è presente un piccolo negozio in cui acquistare cibo ed articoli religiosi. Sono stato molto tentato dal cioccolato fondente di pura pasta di cacao, ma il suo prezzo è stato un deterrente troppo forte.

Se volete fare qualcosa di davvero turistico, scendete in piazza del Priorato, dove si trova la chiesa di Santa Maria del Priorato: dal buco della serratura del portone che da sul cortile, si può avere la famosa vista della basilica di San Pietro. Tuttavia, il mio consiglio è invece di visitare il Giardino degli Aranci, proprio di lato alla basilica di Santa Sabina, da cui si può avere una vista mozzafiato di Roma, che rivaleggia in bellezza con quella che si può avere dal Gianicolo e senza dubbio batte senza appello quella della Terrazza del Pincio. Anche qui, come per la vista che si ha dal Quirinale, preferisco non allegare alcuna foto: è una vista che deve sorprendervi, come ha sorpreso me.

A fatica, ridiscendo dall’Aventino, attraverso il ponte Palatino di cui abbiamo parlato prima (tuttavia, se andate un po’ più avanti potete raggiungere anche l’isola Tiberina, che è il centro attorno al quale ha iniziato a formarsi il primo villaggio che poi avrebbe dato vita a Roma) e mi ritrovo in piena Trastevere. Qui, in questi vicoletti stretti che d’improvviso si aprono in piazze ariose, comprendo il perché tutti parlino così bene di questo quartiere: Trastevere riesce nella difficile impresa di apparire antico, senza sembrare vecchio; di essere caratteristico, senza cadere nel patetico. Se avete tempo e volete, semplicemente, perdervi in un luogo che vi incanti senza che riusciate a capire perché, Trastevere è il luogo che fa per voi.

Faccio in tempo a visitare due chiese, prima di tornare sul viale principale: una è quella di Santa Cecilia, un vero e proprio gioiello. In essa, si armonizzano perfettamente l’antico impianto della basilica paleocristiana, a sua volta costruita su una basilica preesistente ed impreziosita da un bellissimo mosaico sull’abside (usualmente, quando si pensa ai mosaici, viene subito in mente Ravenna: eppure, Roma non sfigura senza dubbio, sotto questo punto di vista), con gli interventi successivi; notevole il ciborio, opera di Arnolfo di Cambio. Sotto l’altare maggiore è presente una spettacolare statua di Santa Cecilia velata, opera di Stefano Maderno, il fratello di Carlo, l’architetto che realizzò la facciata della basilica di San Pietro. La statua, devo dire la verità, rivaleggia con il Cristo Velato della cappella di Sansevero, a Napoli, tanto per il virtuosismo tecnico di rendere un panneggio tanto movimentato utilizzando il marmo (ma la Santa Cecilia è di due secoli antecedente al Cristo), quanto per la resa illusionistica: se non fosse per il biancore della pietra, tanto Santa Cecilia, quanto il Cristo, sembrerebbero aver appena esalato l’ultimo respiro.

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Santa Cecilia di Stefano Maderno (sopra) ed il Cristo Velato della Cappella Sansevero, a Napoli (sotto)

Per la chiesa di Santa Maria all’Orto, che sorge poco lontano, invece, non posso spendere parole altrettanto lusinghiere; architettonicamente non presenta caratteristiche interessanti, non ha storie di cui potersi vantare ed è decorata con uno sfarzo che mal si addice alla sua scarsa importanza. La cito solo perché, al suo interno, ho “ammirato” l’unico quadro di Giovanni Baglione di cui abbia memoria: una brutta raffigurazione di qualche episodio biblico minore, con un’eroina che spicca solo per il suo patetismo e per i notevoli errori anatomici fatti nel disegnarla. Non mi sto accanendo contro Baglione; voglio solo dire che un artista tanto modesto, ai suoi tempi, era preferito dalla maggior parte dei committenti ad un suo contemporaneo di cui avete forse sentito parlare: Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio. Il tempo è galantuomo.

(continua. Sì, lo so che sto mettendo duramente alla prova la vostra pazienza, ma vi concedo una tregua: per i prossimi tre giorni, infatti, causa lavoro, non avrete notizie di questa mia guida di Roma. Ci siamo quasi, ve lo prometto. Se volete qualcuno con cui prendervela per questo episodio assurdamente lungo, è ammenicolidipensiero che mi ha provocato

Al solito, le foto non mi appartengono, ma sono di proprietà dei legittimi proprietari)

 

9 thoughts on “A Roma andai, a voi ripensai – Quinta parte

  1. a ruota libera-2.
    1. al giardino degli aranci andai con i miei cugini di roma quando avevo circa 8-10 anni. ricordo l’impatto (e la foto che scattai al placido tevere) come fosse oggi (e lo ricordavo quando ritornai al giardino circa 30 anni dopo). mi dissero, ai tempi: “uno dei luoghi meno conosciuti e più sottovalutati di roma”. credo sia ancora così
    2. curiosa idiosincrasia (è il termine più appropriato?) nei confronti di trastevere, che hai fatto bene a superare (e penso tu sia stato ripagato). nella visita, avrei incluso un religioso pellegrinaggio alla libreria di minimum fax (per me immancabile ogni volta che passo di lì). quando ti ricapita di passare di lì, consiglio vivissimamemente
    3. ma fammi capire una cosa: c’è la possibilità che tu venga riassegnato a caput mundi in specialità? se sì, tieni contro che ai primi diottobre sarò lì – e stavolta, la birra non scappa!
    4. io non provoco. stimolo. XD

    • 1. Condivido;
      2. Non sapevo ci fosse la libreria Minimum Fax! Segno, la prossima volta che ci passo vedo;
      3. C’è la possibilità che venga assegnato tipo ovunque:-);
      4. Ma il risultato è lo stesso!

  2. a ruota libera anch’io…
    – un paio di anni fa andai alla Bocca della Verità ma vista la coda di turisti, ormai che ero lì, mi affacciai dentro Santa Maria in Cosmedin che ricordo come una bella chiesa romanica. Purtroppo c’era una funzione religiosa ortodossa (in realtà era cattolica greco-melchita) e quindi non la potetti girare, anzi feci pure una discreta figura di m… perchè scattai una foto dimenticando di togliere il flash e fui redarguito da una fedele!

  3. Metto mi piace sulla fiducia dela prima impressione ad una prima lettura: bisognerà che legga a tappe perché il tuo è un vero e proprio trattato toponomastico😛 già mi fumano le All starà

    Sherabientot

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