Con questo anello

All’inizio del millennio, il mondo dei bari e delle truffe doveva affascinare oltremodo il pubblico cinematografico. Proprio al sorgere degli Anni Zero, ad esempio, giunse nelle sale l’avvincente quanto inverosimile Ocean’s Eleven, destinato a diventare uno dei film più famosi sull’argomento, a sbancare il botteghino, a consacrare George Clooney e Brad Pitt nel ruolo di star internazionali, a lanciare definitivamente la carriera di Matt Damon e ad originare non solo una saga che avrebbe partorito altri tre episodi (l’ultimo dei quali diciassette anni dopo la pellicola originale), ma anche tutta una pletora di imitazioni.

Appartiene a quest’ultima categoria Shade, film di più modeste pretese uscito nel 2003 ed incentrato sulle vicissitudini di uno scalcagnato terzetto di bari che tenta di fregare Sylvester Stallone; tale opera si apre con una divertente sequenza in cui Thandie Newton e Gabriel Byrne mettono in scena la riproduzione di una delle più “classiche” truffe che l’umanità ricordi: quella dell’anello.

La frode in questione può essere architettata in maniere più o meno sofisticate, e in fin dei conti anche l’imbroglio del “principe nigeriano”, che qualche anno fa raggiunse una certa notorietà grazie alla trasmissione televisiva Le Iene, non è altro che una sua versione più raffinata; nella sua forma più basilare, comunque, essa si svolge così come viene mostrata nella scena iniziale di Shade. Due persone collaborano per incastrarne una terza (in questo caso, un benzinaio di nome Mike): la Newton finge di aver perso un anello di grande valore (questa è di solito “l’esca” anche fuori dallo schermo, da cui il nome della truffa) nei pressi di una stazione di servizio, e di non potersi fermare a cercarlo; offre quindi a Mike una ricca ricompensa (mille dollari), nel caso in cui riuscirà a recuperarlo ed a riconsegnarglielo. Gli da poi il suo numero di telefono e si “sgancia” allontanandosi in auto, lasciando campo libero a Byrne: questi irrompe sulla scena travestito da senzatetto (come vedremo, il fatto che il secondo complice sembri poco avveduto è fondamentale per la riuscita dell’inganno) e, mentre fruga nella spazzatura, rinviene “fortunosamente” l’anello. Si dichiara deciso ad andare ad impegnarselo, e qui interviene Mike, che si propone di acquistarlo per una cifra assai più cospicua di quella che qualunque banco dei pegni potrebbe mai offrire ad un povero clochard (per quanto, sempre inferiore ai mille dollari che gli sono stati promessi). Byrne prima rifiuta, poi tentenna, poi contratta, infine si intasca i cento bigliettoni che il benzinaio gli porge e si allontana: gira l’angolo, si toglie la scarmigliata parrucca che ha in testa e sale sulla macchina in cui la Newton lo sta aspettando, insieme ad un buon numero di anelli del tutto identici a quello che Mike si è appena accaparrato sborsando cento dollari e che potrebbe essere acquistato in qualunque negozio di bigiotteria per una cifra non superiore ai dieci. I due si baciano e partono verso l’infinito.

Ora: più su ho definito questa truffa un classico, ed in effetti oltre a Shade molte altre pubblicazioni (specialistiche, divulgative, narrative) ne hanno illustrato il funzionamento: personalmente, devo la sua conoscenza a Fraudologia di Matteo Rampin e Ruben Caris, testo ostico ma che consiglio a chiunque voglia approfondire l’argomento. Eppure, nonostante una così diffusa notorietà, la truffa dell’anello continua ad essere praticata, e con notevole successo, dai truffatori di tutto il mondo: e tale apparente paradosso si scioglie con facilità, se solo ci si sofferma a riflettere su quanto ingegnosa sia la costruzione o, se preferite, lo stroytelling del raggiro, che si appoggia tutto su quella che potremmo chiamare la “legge zero” di questo campo, altamente specializzato, del crimine; legge che in altri tempi ho sempre espresso, più o meno, in questi termini: “non si può truffare chi non vuole essere truffato”, ma di cui oggi vorrei provare a darne una diversa e più precisa enunciazione.

Non si può truffare chi non vuole truffare.

Ricostruendo brevemente l’incipit di Shade, ho sottolineato quanto sia importante, perché la truffa vada in porto, che il “complice numero due” sembri “più pollo del pollo”: la frode fa leva sull’avidità della vittima, ed è necessario che quest’ultima percepisca di poter facilmente raggiungere un indebito guadagno. Se, invece che in quelle di un barbone, l’anello fosse finito nelle mani di un azzimato uomo d’affari, magari anche un po’ stronzo, Mike avrebbe comunque “tentato il colpaccio”? Forse sì, ma senza dubbio lo avrebbe fatto con maggiori remore, perché la sua posizione di dominio sarebbe venuta a mancare: il benzinaio avrebbe infatti potuto supporre che il suo interlocutore avesse una completa padronanza e dei suoi mezzi intellettuali, e, soprattutto, di quelli economici; se Mike agisce, è perché è convinto che Byrne (che sembra non riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena) cederà subito, e lui ritiene di poter approfittare di questa situazione di vantaggio. La truffa dell’anello funziona, in definitiva, perché se un’interazione come quella tra Mike e Byrne fosse reale, se avvenisse fuori dalla finzione costruita dai due complici che si stanno “lavorando un pollo”, sarebbe essa stessa una truffa, o quasi; funziona perché… stavo per dire perché la vittima è complice del truffatore, ma poi mi sono reso conto che una simile affermazione è al tempo stesso pericolosa e fuorviante.

Personalmente, trovo semplicemente spregevole il victim blaming nei confronti di chi è “cascato con tutte le scarpe” in una frode, quella retorica che attribuisce ogni colpa all’insipienza ed alla cupidigia di chi si è “fatto fregare”: ancor di più, perché non tutte le truffe sono la truffa dell’anello, ed anzi ne esistono svariate che si basano non sulla brama di guadagno, ma sulla generosità e le buone intenzioni di chi, alla fine, ci rimette; basti pensare all’infinità di raccolte fondi farlocche che, con regolarità, vengono smascherate sui mezzi d’informazione… gli stessi mezzi d’informazione che, sia detto tra parentesi, spesso e volentieri si prestano a far pubblicità per campagne di beneficenza non meno opache di quelle contro cui puntano il dito. Lo scopo di questo articolo non è dunque quello di condurre un discorso di questo tipo; e, forse, più che di complicità, si dovrebbe parlare di una condivisione di valori tra vittima e truffatore, per casi come quello che Shade, in un certo senso, satireggia: perché se è forse sbagliato dire che Mike collabora con la Newton e Byrne allo scopo di farsi spillare cento dollari, è senza dubbio corretto affermare che anche lui, come loro, crede che sia giusto, o quanto meno legittimo, approfittare di chi, per un motivo o per l’altro, si trova in condizioni di inferiorità.

Se vi sto annoiando con questa fin troppo approfondita analisi, è perché quei pochi minuti di Shade mi sono tornati in mente quando, qualche giorno fa (nonostante la notizia sia “vecchia” di qualche mese), ho appreso che Lina Khan, giovanissima presidente della Federal Trade Commision americana, ha intentato una causa contro alcuni colossi della tech economy e che, tra le altre, è finita sul banco degli imputati anche Amazon: l’azienda di Jeff Bezos avrebbe infatti abusato della sua posizione di evidente dominio sul mercato dell’e-commerce per stritolare i concorrenti e “spennare” i clienti, i quali sarebbero stati indotti (come riportano anche altre fonti) a compiere acquisti non necessari ed i cui dati sarebbero stati utilizzati ad indebito vantaggio del colosso della vendita online. E, intendiamoci: ritengo sacrosanta un’iniziativa del genere, e credo anzi che giunga fin troppo tardiva; ma, prescindendo dal fatto che la Khan ha esplicitamente dichiarato che il suo scopo è tutelare la concorrenza, e non l’utenza, sarebbe peccare di onestà dimenticare che, nell’ascesa che l’ha portata in una posizione in cui può fare, sostanzialmente, un po’ il cazzo che vuole, Amazon è stata ampiamente aiutata dagli stessi utenti che, ora, sono le vittime della sua spregiudicata politica aziendale.

All’inizio della sua avventura, infatti, Amazon non guadagnava sostanzialmente nulla dalle sue vendite, ed anzi ha chiuso sovente con i bilanci in perdita, impiegandoci più di dieci anni per “mettersi in pari”: questo perché, per offrire dei servizi che pochi mettevano a disposizione, manteneva dei prezzi bassissimi, allo scopo di avvantaggiarsi rispetto ai concorrenti; ed io non credo che gli utenti che, allora, approfittavano di questa scelta, ignorassero che era completamente antieconomica, e che doveva esserci “qualcosa dietro”: semplicemente, chi si è riempito la casa di gadget per cifre irrisorie deve aver stimato che la miglior strategia, in quel momento, fosse di arraffare tutto il possibile, finché era possibile.

Ora: per quanto io ritenga che sia un sistema profondamente ingiusto, e nel complesso distruttivo, non sono ancora giunto a considerare il capitalismo, tout court, una truffa; d’altronde, è innegabile che i dirigenti di Amazon ed i suoi “utilizzatori finali”, come la Newton, Byrne e Mike, condividono lo stesso sistema di valori, che si compendia appunto così: arraffare tutto il possibile, finché è possibile. In ogni modo possibile, aggiungerei.

Che poi potrebbe benissimo essere il motto del sistema capitalistico.

Vedere lo Strega

È un vero peccato che, in un’epoca come la nostra, che avrebbe reso il loro lavoro agevole come mai è accaduto in passato, i giornalisti ed i blogger siano ormai gli sparuti rappresentanti di una specie in via d’estinzione, o già estinta senza che gli ecologi se ne siano resi conto; anzi, per dire meglio: è un vero peccato che siano in via di estinzione, o già estinti, i rappresentanti di queste due categorie che ancora non hanno subito la metamorfosi in editorialisti e/o in influencer. Che poi è più o meno la stessa cosa. 

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Quell’ingenuo di Pletone

Per i primi trent’anni della mia vita, ed essendoci stato solo due volte, ho creduto che la Romagna si esaurisse nella sua riviera, ed in tutte le manifestazioni “folkloristiche” che le ruotano attorno; per questo motivo, quando ho deciso di venirci a vivere, avevo la ferma convinzione che mi sarei trovato benissimo dal punto di vista professionale, ma che avrei avuto qualche problema di “adattamento” al mondo fuori dal lavoro.

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